Interessante.
Ci sono frasi che condivido e altre meno.
Se è vero che il talento, senza costanza ed applicazione non produce nulla, è vero anche il contrario.
Io potrei allenarmi 10 ore al giorno a suonare uno strumento, oppure a giocare a calcio, e non riuscirei comunque a concludere nulla di sensato.
Ciao,
eccomi. È da qualche giorno che non sono in formissima (raffreddamento) e quindi non sono riuscito ad aggiungere un commento personale alle varie citazioni fatte, cosa che era mia intenzione fare in origine.
Iniziamo da una premessa importantissima: tra le competenze trasversali che ho sviluppato, quella che mi sta più a cuore è il
pensiero critico e riflessivo.
Stimo tantissimo Siddarta Gautama, anche se non sono buddista, per il semplice motivo che probabilmente sosteneva cose di questo genere:
"
Le mie parole, o monaci, debbono essere verificate ed accettate dai savi così come l'oro, che viene riscaldato, spezzettato e provato, non certo per reverenza verso di me."
Non ha alcun senso ascoltare qualcuno, leggere qualcosa, in modo a-critico e senza porsi domande. Questo vale per qualsiasi fonte. Io l'ho fatto anche con la Parola di Dio e vale ovviamente anche per
Angela Duckworth. In ambito accademico difficilmente c'è unanimità tra gli studiosi. Ciò può lasciare spiazzati, ma dato che il metodo scientifico si basa su ipotesi, è normale che sia così.
Ciò che non mi piace del discorso dei talenti, lo esprime bene Mario Polito riprendendo le idee di Geoff Calvin:
"
È sbagliato presentare i talenti come il risultato di qualcosa di magico, misterioso, indecifrabile. Il talento è essenzialmente sforzo, fatica, sudore, impegno, 'esercizio intenzionale', cioè focalizzato allo scopo e sostenuto dal metodo e dall'autodisciplina."
(Mario Polito, Realizza i tuoi talenti. Per regalare il tuo contribuito al mondo, pp. 8-9)
Il libro di Angela Duckworth è pieno di esempi concreti, in classico stile americano, che non ho citato.
Una delle storie raccontate è la seguente:
"Secondo
The war for talent (tesi principale: le imprese ascendono e cadono a seconda della loro capacità di attrarre e mantenere nella propria squadra i 'giocatori migliori' con doti innate), le imprese che eccellono sono quelle che promuovono aggressivamente i collaboratori più brillanti, mentre con la stessa aggressività eliminano i meno dotati.
[...]
Le imprese citate come esemplari in
The war for talent non hanno fatto registrare risultati tanto positivi negli anni successivi alla pubblicazione di quell'entusiastico rapporto."
(Duckworth, p. 37)
"
Concentrando i riflettori sul talento, si rischia di lasciare in ombra tutto il resto. Senza volere, comunichiamo il messaggio che altri fattori - compresa la grinta - non abbiano poi tanta importanza." (Duckworth, p. 39)
Uno potrebbe ribattere che però è problematico anche il contrario, ciò far credere che uno ha il potenziale di poter diventare bravo in tutto.
La Duckworth stessa, nel suo libro, afferma l'importanza di scegliere un unico obiettivo e focalizzarsi su quello e basta.
Polito esprime la cosa con queste parole:
"È necessario fare delle scelte, per la semplice ragione che lo sviluppo dei talenti richiede una grande dedizione. Spesso, un coinvolgimento esclusivo e totale."
(Polito, p. 27)
"I genitori affettuosi che si dedicano allo sviluppo dei talenti dei propri figli non li esaltano, ma semplicemente li accompagnano nel percorso concreto della loro realizzazione. Un cammino che è lastricato di difficoltà e ostacoli, di fatica e sudore, di insuccessi e battute di arresto [...].
Non dicono 'Puoi fare tutto'. Punto. Dicono invece: 'Puoi far tutto, (virgola)...' e aggiungono una lunga lista di condizioni concrete. 'Puoi tutto, se ti impegni al massimo, se sai valorizzare il sudore e la fatica, se sai apprezzare lo sforzo, se sai autodisciplinarti, se usi un buon metodo, se rispetti un severo piano di allenamento, se coltivi una forte motivazione, se esprimi una grande volontà di riuscita, se non ti abbatti di fronte alle difficoltà e insuccessi, se hai una grande visione della vita, se ti fai guidare da un grande sogno, se ti vuoi bene, se ami la vita, se vuoi dare un contributo al mondo'.
S
i possono distruggere i talenti dei propri figli sia con l'esaltazione irrealistica ('Sei il migliore.
Puoi ottenere tutto quello che vuoi. Tutte le strade sono aperte per te. Non ci sono limiti ai tuoi sogni.
Sei bravo in tutto. Nessuno può competere con te'),
sia con la denigrazione e l'umiliazione ('
Non ci riuscirai mai. Non hai le capacità. Non sei dotato. Sei un buono a nulla. Lascia perdere').
Al contrario, le frasi che aiutano i figli a
coltivare realisticamente i loro
talenti suonano così: 'Prova a fare in quest'altro modo e poi raccontaci come ti sei sentito. Questa è una bella sfida, che ti richiederà molto impegno, ma noi sappiamo che tu ci tieni molto a questo obiettivo. Siamo sicuri che ce la metterai tutta per raggiungerlo'."
(Polito, pp. 42-43)
Coltivare in modo realistico i propri talenti è importante, senza alcun ombra di dubbio. Lavorando io personalmente con i minorenni, trovo tuttavia altrettanto importante avere una mentalità di crescita e credere fermamente nel principio di educabilità.
"Quando alcuni adolescenti fanno una lista dei propri talenti, scoprono spesso di non averne alcuno. Non sono bravi nello sport. A scuola riescono in modo stentato. Nel gruppo di amici non sono dei leader né sono dei brillanti narratori di barzellette. Non suonano la chitarra. Eccetera.
Di fronte a questa panoramica, si abbandona rapidamente la ricerca dei propri talenti. E
uno pensa di non averne affatto. Questo succede perché si ha una visione magica dei talenti: si pensa, superficialmente, che i talenti si possiedono fin dalla nascita. Uno li ha o non li ha. Se li possiede, allora tutto facile. Se non li possiede, non c'è niente da fare, nonostante la sua buona volontà.
Quest'idea è deleteria. Generalmente è enunciata dalle persone presuntuose che desiderano distinguersi dagli altri considerandoli inferiori.
[...]
Alcuni docenti sono convinti che è una perdita di energia istruire chi non ha talento. E poiché il talento è raro, loro si dedicano soltanto ai pochi che ne sono forniti. Sono contrari alla 'scuola di massa', cioè, sono contrari alla scuola per tutti, sono contrari alla scuola per tutti i talenti.
[...]
'Perché sprecare tanto fiato con questi ragazzi che non ce la fanno?' aggiungono altri docenti. 'Perché dimostrare loro che non ci arrivano e, così, offenderli e umiliarli? Poveretti. Togliamo il disturbo. Lasciamoli in pace.'
Nelle scuole del passato questi docenti erano molto numerosi ed erano tranquilli nella loro coscienza di dover seguire soltanto quel gruppetto di ragazzi dotati e trascurare e abbandonare gli altri.
Molti docenti, ancora oggi, confondono talento e genialità.
La genialità è veramente rara, ma il talento è stato distribuito a tutti, basta dedicare del tempo e scoprirlo e a coltivarlo."
(Polito, pp. 65-66)
La situazione descritta da Mario Polito è a dir poco allarmante. Questo non sentirsi capaci, soprattutto in età giovane, può essere molto problematico.
"
A originare la 'antipatia' o 'idiosincrasia' per una specifica disciplina possono concorrere diversi fattori. Alcuni riguardano le percezioni di abilità (considerarsi 'non bravi',
pensare di non poter migliorare, credere di 'non essere portati', non capire,
avere conseguito ripetuti esiti negativi...), altri il valore ovvero l'importanza e l'utilità assegnata alla materia (
credere che 'non serva nella vita' o non condividere le ragioni per cui va studiata)".
(Angelica Moè, Il piacere di imparare e di insegnare. Pensieri, ambienti e persone motivanti, p. 77)
"Gli adulti adottano due prospettive fondamentali sull'abilità: la prospettiva entitaria e la prospettiva incrementale.
La prospettiva entitaria dell'abilità assume che l'abilità sia un tratto stabile e incontrollabile, una caratteristica dell'individuo
che non può essere cambiata. Secondo questa visione, alcune persone hanno un'abilità maggiore di altre, ma ognuna ne possiede una quantità predefinita.
La prospettiva incrementale dell'abilità, d'altra parte, suggerisce che quest'ultima sia un tratto instabile e non controllabile: 'un repertorio in continua espansione di competenze e conoscenze'.
Attraverso il duro lavoro, lo studio e la pratica, la conoscenza può essere incrementata e pertanto l'abilità può migliorare.
[...]
Gli studenti con una prospettiva entitaria (immodificabile) dell'intelligenza tendono a definire obiettivi che evitano la prestazione, per non dare una cattiva immagine di sé agli occhi degli altri. Cercano situazioni in cui possano sembrare intelligenti e proteggere la propria autostima. Continuano a fare cose che sanno fare bene, senza profendere sforzi eccessivi o rischiare il fallimento: entrambe le cose infatti - lavorare sodo e fallire - indicano (per loro) un'abilità inferiore. Lavorare sodo e fallire sarebbe una catastrofe. La prospettiva entitaria ha maggiori probabilità di essere assunta dagli studenti con disturbi dell'apprendimento.
Per contro, una visione incrementale dell'abilità è associata a maggiore motivazione e apprendimento. Credere di poter migliorare le proprie capacità aiuta a concentrarsi sui processi di problem solving e sull'applicazione di buone strategie, anziché sui prodotti dei risultati e dei voti nelle verifiche. Il fallimento non è una catastrofe: indica semplicemente che è necessario lavorare di più."
(Anita Woolfolk, Psicologia dell'educazione. Teorie, metodi, strumenti, pp. 295-296)
Come docente, avere una prospettiva incrementale dell'abilità, credere fermamente nel principio dell'educabilità, dare più importanza all'impegno che al talento, concepire il talento non come qualcosa di magico ma come qualcosa di realizzabile da tutti, trovo che sia di fondamentale importanza.
Poi, per star bene con sé stessi, come afferma Mario Polito, ha senso focalizzarsi e coltivare talenti che ci riescono più facilmente. Ma io resto e resterò sempre molto affascinato da tutte quelle persone che hanno deciso di dedicarsi anima e corpo in qualcosa che non li riusciva subito facilmente, eppure sono diventati molto bravi, dedicando tanto tempo, sforzo, passione in qualcosa in cui ci tenevano particolarmente (il mondo là fuori è pieno di esempi in tal senso).