Si poteva citare Bloodborne, che è riuscito a catturare diverse meccaniche del videogioco trasformandole in peculiarità del gioco da tavolo.
Le azioni dei nemici che sono schematici e in parte prevedibili, l'arma che si trasforma, il reset degli spawn, o il sogno del cacciatore in cui migliorare il personaggio.
La mano di Lang c'è e si vede: un autore che ha già dimostrato di saper fare bei giochi e di successo.
Se da una parte numerosi giochi prevedono ora l'utilizzo massivo dell'App come supporto (Frosthaven) o addirittura come parte essenziale e preponderante del sistema di gioco (Descent: Leggende nelle Tenebre), è altrettanto vero che sempre più spesso si compie il percorso inverso, in giochi da tavolo che sono l'adattamento di un videogioco, o almeno il tentativo di trasporre un sistema di gioco digitale in analogico.
Il fatto è che, nel cambio di piattaforma, occorre tener presenti le differenti potenzialità, le diverse procedure e soprattutto le aspettative del pubblico, altrimenti si rischia di fare grossi passi falsi.
Il problema della troppa fedeltà

In Resident Evil, videogioco, le postazioni con le macchine da scrivere rappresentavano punti in cui si potevano salvare i progressi fatti, in modo da poter continuare da lì in caso di morte del personaggio. Nel gioco da tavolo ovviamente questa cosa non funziona e non ha senso. Gli autori hanno però voluto mantenere lo stesso il sistema delle macchine da scrivere, cambiandone però il funzionamento: quando si interagisce con una di esse, spendendo un gettone inchiostro, si rimescola il mazzo delle carte evento. Questo mazzo funge da timer del gioco: se si esaurisce, la partita è persa. Ecco dunque che un elemento iconico di una serie viene mantenuto trovandogli in nuovo significato.
In questo caso l'operazione è riuscita a metà: dal punti di vista meccanico funziona e mette anche una certa pressione strategica ai giocatori; dal punto di vista tematico, invece, ha molto poco senso.
In ogni caso è un tipo di adattamento che incide marginalmente sul gameplay e non scalfisce quel che di buono c'è nel resto dell'adattamento che, va detto, è uno dei migliori tra gli esempi che faremo.

Si è cercato in seguito di mettere una pezza a questo sistema, cambiando diverse regole e il flusso di gioco, ma sono tutte correzioni fatte a posteriori, senza uno studio di game design e un playtest preventivi.
Media differenti richiedono soluzioni differenti.
Possiamo quindi concludere questo primo punto evidenziando come la troppa fedeltà al videogioco produce effetti negativi, se non si riesce ad adattare le meccaniche digitali a quelle analogiche.
Ma cosa succede se, al contrario, si cerca di adattare troppo?
Il problema della semplificazione
Le possibilità che un videogioco offre sono infinite. Si possono combinare centinaia di equipaggiamenti, farli interagire in percentuali, applicare gli effetti più disparati in automatico. In un gioco da tavolo questo non è possibile, a meno di non trasformalo in un videogioco mascherato, come Descent: Leggende nelle Tenebre.
Gli autori di giochi da tavolo hanno in realtà sviluppato diversi sistemi per rendere ugualmente profondi e interessanti i loro giochi, senza bisogno di scimmiottare i videogiochi: media diversi, impongono soluzioni diverse e, con l'ingegno, è possibile trovarle e applicarle efficacemente.
Tuttavia, nella trasposizione da videogioco a gioco da tavolo, l'operazione più semplice da fare è tagliare e semplificare. Questo però comporta che, molto spesso, si perde profondità e ciò che di bello caratterizzava il videogioco.

Da una parte si è quindi scelto di limitare il numero delle truppe a due soli step (“pochi o tanti”), contro i diversi del videogioco: questo è un esempio di semplificazione che funziona e che non rappresenta una perdita impattante sul gameplay.
Oppure limitare il numero di carte in mano andando a creare una sorta di deckbuilding: anche in questo caso, si è limitato il numero di informazioni che il giocatore deve gestire da solo, rispetto al videogame che lo faceva in autonomia, senza però minare la profondità del gameplay.
Il problema si ha quando si arriva al combattimento. Nel videogioco era sviluppato su una mappa tattica esagonata, che forniva un gran numero di possibilità tattiche al giocatore, nella gestione delle azioni e delle diverse truppe. Qui si è dovuto necessariamente semplificare, limitandolo a una mappa a zone, con poche carte creatura per parte e movimenti molto più vincolati e ingessati. Il tutto per non aumentare troppo la durata della partita, già parecchio alta e il downtime, quando si gioca in multiplayer. Esiste anche la variante con la mappa esagonata e le miniature, ma è appunto consigliata solo per l'eventuale scontro finale di ogni scenario, se presente, proprio per la sua macchinosità e per la lunghezza e il downtime che aggiunge agli scenari. La si può utilizzare in solo, lasciando il tavolo apparecchiato e non avendo problemi di spazio e tempo, ma in multiplayer è proibitiva.
Ma anche la presenza del secondo eroe, che ne videogioco aveva pari possibilità rispetto al primo, qui è stata ridotta e semplificata: se il gioco fosse stato progettato come gioco da tavolo fin dall'inizio, probabilmente non sarebbe proprio esistito e si sarebbero cercati sistemi alternativi per conquistare e controllare un regno esteso. Qui c'è perché deriva dal videogioco, ma giocoforza viene ridimensionato, per non appesantire troppo le cose.
In sostanza, quando si gioca a Heroes of Might and Magic III nella sua versione da tavolo, si ha la sensazione di giocare esattamente la sua controparte videoludica, ma tagliata in alcuni aspetti e privata in altre delle sue parti più belle e caratteristiche.
L'adattamento, in questo caso, è stato solo sottrattivo e, giocando, non si può fare a meno di pensare quanto più soddisfacente sarebbe tornare a giocare al videogioco invece di affaticarsi sulla sua controparte analogica, oltretutto perdendo dei pezzi.
Concludiamo quindi evidenziando come adattare solo con la semplificazione può unicamente mettere in evidenza i limiti del gioco da tavolo rispetto al videogioco, senza esaltarne quelle che sono le differenti e peculiari potenzialità.
Catturare l'essenza
L'operazione virtuosa che andrebbe fatta in una trasposizione di questo genere consiste principalmente nel comprendere quale sia l'essenza del videogioco che si sta trasponendo e poi cercare di mantenerla sfruttando le meccaniche del gioco da tavolo, ben consapevoli delle sue potenzialità, ma anche dei suoi limiti.
Facciamo qualche esempio, sia in negativo che in positivo.

In Resident Evil, invece, assistiamo a un esempio positivo. La sensazione che si è cercato di restituire è quella di un survival horror in cui i protagonisti vivono sempre in un costante stato d'ansia e precarietà. Sebbene il gioco da tavolo non possa, al contrario del videogioco, farti fare i classici “salti sulla sedia” per qualche evento improvviso, il fatto di avere il tempo contato (con l'espediente della macchina da scrivere di cui abbiamo già parlato), le pallottole contate, l'estrema incertezza nel muoversi e nello schivare, la pressione costante degli zombi, sono tutti elementi che concorrono a ricreare l'atmosfera del gioco originale.
Come altro esempio positivo citiamo Alone che, sebbene non ne porti il nome, è chiaramente ispirato al videogioco Dead Space. Qui si è riusciti a ricreare il senso di solitudine del protagonista, isolandolo contro nemici che tramano nell'ombra, sia coalizzando i cattivi contro un singolo eroe, sia col sistema delle rimozione della mappa, delle zone illuminate e di quelle al buio, tutti elementi che aggiungono una costante pressione al povero Isaac.
Anche Slay the Spire riesce a comunicare bene il feeling da roguelike del videogioco. In questo caso, rimettere tutto a posto e ritentare è relativamente rapido e facile e soprattutto non propone sempre lo stesso percorso e incontri, a differenza di Dark Souls. Anche qui, in parte, si avverte la semplificazione rispetto al videogioco (com'è per Heroes of Might and Magic III), ma qui c'è la compensazione di un multiplayer funzionante, assente digitalmente, che è realizzato bene e stimola la collaborazione tra giocatori, aggiungendo qualcosa in più a questa versione analogica che compensa ampiamente i piccoli dettagli persi.
Infine, impossibile non citare Gears of War. Qui il senso di precarietà e le difficoltà del videogioco e la collaborazione tra i membri della medesima squadra sono perfettamente ricreate con la meccanica di gestione delle carte, dell'attivazione dei nemici, delle coperture e delle carte che puoi usare in combo con l'attivazione alleata. Però qui il game designer è Corey Konieczka, mica uno scappato di casa qualsiasi.
Conclusione
Traferire il gameplay di un videogioco è tutt'altro che semplice: cambia il game design, cambia il mezzo, cambiano i tempi, i materiali, spesso anche i giocatori.
Riportare tutto fedelmente, rischia di complicare le cose e non funzionare per nulla come gameplay, mentre limitarsi a una mera operazione di sottrazione e semplificazione rischia di appiattire il gioco da tavolo e far solo rimpiangere quello digitale.
Sembra banale, ma per fare un buon adattamento occorre prima di tutto essere capaci di fare un buon gioco da tavolo, indipendentemente da quale sia la fonte d'ispirazione originaria.