Il mio primo gioco da tavolo moderno, prima di Catan, prima di Bang! credo persino, non ricordo assolutamente come e dove ho recuperato la prima edizione, c'avrò avuto massimo 20 anni, nessuna carta di credito, non compravo su internet, non frequentavo negozi specializzati, possibile l'abbia trovata in qualche supermercato?! In ogni caso tanti bei ricordi, pomeriggi interi passati semplicemente a disporre e ridisporre miniature sul tabellone, così per il semplice colpo d'occhio, poi la decisione di dipingerle con tempere e colla vinilica (!!!), mia sorellina artista in erba cooptata allo scopo, qualche basetta e un bellissimo elefante sudrone è tutto ciò che ne rimane, quest'ultimo ancora orgogliosamente esposto nella mia ex-cameretta a casa dei miei... E infine ripetere le regole ancora e ancora e ancora, mandarle a memoria, per poi spiegarle al mio sventurato compare di quei tempi, più avvezzo alla playstation che ai giochi da tavolo, con cui non sono comunque mai riuscito ad apparecchiare una partita intera, al massimo quella per principianti, senza carte e senza il meccanismo del movimento segreto della compagnia (!) - e nonostante questo, non saper resistere a recuperare la prima espansione, adocchiata in quel di Lucca Comics l'anno che tutto cambiò nella mia vita, ben oltre giochi e giochilli... E niente, è finita che poi ho comprato Catan e Carcassone e Puerto Rico, è finita che ho cambiato compari e gusti e casa, è finita che ho pure rivenduto la prima espansione appena scoperto il mondo dei mercatini dell'usato, ma è stato comunque bello così, la scatola ora prende polvere nell'ex-cameretta di cui sopra, nel mio monolocale non c'è spazio per i bei ricordi, ma nel mio cuore sempre sì.
Nel nostro bel sito si parla ancora troppo poco di quello che, senza timore di essere smentito, è uno dei capolavori del gioco da tavolo all’americana. Continuerà a mancare una recensione; ma almeno ci metto una toppa.
Vi avverto: sarà lunga.
E no: non potete leggere una versione cinematografica.
Va a periodi.
Ci sono quei giorni, tipo quando riprendi in mano Star Wars Rebellion e poi ti vien la voglia di ri-iniettarti in vena tutti e undici i film sub-ottimali della saga di Lucas. O quando sento il bisogno fisico di rivedermi Jurassic Park (quello invero anche senza aver prima giocato a qualcosa nello specifico).
Ecco: qualche giorno fa (di quando sto scrivendo, intendo) ho rigiocato a La guerra dell’Anello e ora, nel bel mezzo di una maratona nella quale i nani, abili scattisti, partono protagonisti ma poi diventano solo un po' dei comprimari, mi è venuto lo sghiribizzo di scrivere questa roba qua.

Quella dell’altro giorno è stata la mia seconda partita, a distanza di mesi – ma forse anche anni – dalla prima, e ringrazio il cielo (e i voli da Londra) che un paio di volte l’anno riesca a giocare certi giochi che rasentano la meraviglia.
Ho dovuto ristudiarmi le regole quasi da zero, anche se stavolta mi sono organizzato e ho preparato degli aiuti giocatore che, per inciso, non ho nemmeno dovuto usare. Non ha un regolamento così complesso, La guerra dell’anello: quelle che possono atterrire perfino un olifante sono le eccezioni di comandanti, personaggi, servi e compagni, ché in questo gioco ognuno fa un po’ come cazzo gli pare.
Del resto non potrebbe essere altrimenti.
Lo spiegone di Galadriel
Il gioco, che val la pena sottolineare essere di mortali italiani quali Roberto Di Meglio, Marco Maggi e Francesco Nepitello, esce per la Nexus nel 2004 e subito si impone all’attenzione sia dei giocatori appassionati dei libri di Tolkien, sia di quelli che hanno scoperto la mitologia dello scrittore britannico, e forse finanche il fantasy, con la trilogia di Peter Jackson, da poco conclusa con il clamore degli Oscar e l’omaggio dei popoli liberi ai quattro hobbit che non si devono inchinare a nessuno; e, ammesso che esista, pure dell’intersezione tra i due gruppi.

Il gioco base, tuttavia, comincia a diventare merce rara e l’editore non si fa sfuggire l’occasione per pubblicare una bellissima seconda edizione nel 2012. Anno in cui, per inciso, lo stesso Peter Jackson – non senza critiche – torna al cinema col primo capitolo di una seconda trilogia sul materiale di Tolkien (due anni dopo, per inciso nell’inciso, il terzo film de Lo Hobbit, La battaglia dei cinque eserciti, diventerà a sua volta un gioco dei tre autori; ma questa è un’altra storia e, a meno che Jackson non voglia farci altri tre film, lascerei perdere).
Dalla prima alla seconda edizione (che nel frattempo è diventata a sua volta merce rara, ma che tuttavia è – o almeno dovrebbe essere – in fase di ristampa per la gioia della nostra terra di mezza età) cambia in realtà poco: viene affinata qualche regola; la mappa è stata resa più pulita, sebbene a molti continui a piacere di più quella precedente (senza contare quella dell’edizione lusso, che ovviamente non fa testo); le miniature dei nazgûl sono magari meno imponenti, ma almeno stanno in piedi; le carte sono state un po’ riviste.

La compagnia del cavillo
Non ho citato Star Wars Rebellion a caso: proprio come il più recente capolavoro di Konieczka, La guerra dell’anello è un lungo, complesso, straordinario titolo tematico per due giocatori venduto anche per tre e quattro, situato da qualche parte tra le quattro e le cinque ore, in cui da una parte ci sono pochi buoni che sono buonissimi e dall’altra tanti cattivi che sono davvero cattivissimi – talmente brutti e schifosi da non avere schiere di giocatori pseudo-imperiali dichiarati che non vedono l’ora di muovere Tarkin, Vader e tutta quella pletora di gente che prima o poi finisce soffocata. O forse questi giocatori ci sono. Probabilmente ci sono. L'umanità è sorprendente.

Nelle varie regioni della mappa ci sono le fortificazioni (due in tutto) e gli insediamenti, a loro volta suddivisi in città, cittadelle e fortezze, con annesse alcune imprecisioni del regolamento; ma pazienza. Fortificazioni e cittadelle forniscono bonus difensivi all’inizio di un combattimento; le fortezze permettono ai difensori di arroccarvisi e di rendere di conseguenza ardua la vita agli eserciti invasori; tutti gli insediamenti consentono di ingrossare le fila degli eserciti. Vi basti.
I popoli liberi constano di cinque diverse razze o comunque nazioni inizialmente arroccate nei loro confini: il regno di Gondor, proprio di fronte a Mordor; Rohan, il popolo dei cavalli, antesignano della dinastia Orfei, appena a nord; e poi i nani, sparsi per la mappa come i loro regni; i due nuclei degli uomini del nord, uno tra la Contea e Brea (i dúnedain, o númenoreani), l’altro compresso tra il bosco atro e le montagne nebbiose, nel Rhovanion, da ora in poi; e infine le quattro fortezze degli elfi, l’unico popolo tra quelli liberi che all’inizio del gioco è militarmente attivo: vale a dire che ha quantomeno una pur vaga idea di quel cazzo che sta succedendo dietro quelle montagne nere e aspre come un bicchiere di clinton.

Cittadelle e fortezze avversarie, se conquistate, fruttano rispettivamente uno e due punti vittoria: i popoli liberi, che sono in minoranza numerica e le cui perdite vanno rimosse dal gioco e tanti saluti se le miniature finiscono, vincono a quattro punti; l’Ombra, che dispone di rinforzi infiniti, a dieci.
Ma siccome La guerra dell’anello non è Risiko! non è tutto qui: chi muove i popoli liberi deve gestire anche la Compagnia dell’anello, che parte in forze da Gran Burrone e i cui membri prima o poi vanno lasciati liberi di far fruttare le loro abilità per la terra di mezzo. Ogni volta che la Compagnia si muove (rimanendo tecnicamente ferma all’ultima posizione nota) una certa procedura coi dadi può permettere all’Ombra di scovarla, costringendo uno dei compagni a sacrificarsi oppure Frodo a dover utilizzare l’anello, accrescendo pertanto la sua corruzione.

Senza allungare oltre il brodo, basti dire infine che i combattimenti si risolvono con un semplice sistema a lancio e rilancio di dadi (rispettivamente per numero di unità e di comandanti o personaggi principali presenti) e che i casi speciali come gli assedi sono trattati con una serie di regole che riesce a essere elegante (per esempio colpire solo col sei invece che anche col cinque se il nemico è arroccato in una fortezza) e astrusa al tempo stesso, soprattutto in merito a chi in tali assedi può entrare, chi può uscirne, quando può essere interrotto e perché tutto il tempo c'è Piccinini che urla "mucchio selvaggio!"
Le due croci
Questo canovaccio tutto sommato non complicatissimo viene sviluppato mediante due differenti meccaniche, entrambe americane fino al midollo, che apportano l'una la necessaria (sic) alea e l’altra la longevità che serve a ogni bel gioco. (Ci sarebbe da parlare anche dell'estrazione di cose dal sacchetto, ma sorvolo in questa sede: vi basti sapere che è una roba che giova molto al tema e che il sacchetto non è incluso e che prima o poi ne vorrete uno con sopra scritte in alfabeti strani maledicendo internet).

I dadi azione sono forse il vero scoglio del gioco, se non altro in termini di attualità: sono forse l’elemento invecchiato meno bene di tutto l’impianto, giacché limitano spesso e volentieri le scelte dei giocatori, a volte costretti ad azioni relativamente subottimali. Di contro, essi permettono di arricchire l’esperienza con un paio di trovate estremamente ambientate come i tre anelli elfici e il risultato “volere dell’ovest”, entrambi sorta di risultato jolly che però, nel primo caso, quando usati finiscono nelle grinfie dell’Ombra, che può usarli a sua volta.

Cosa che ci porta al secondo elemento di cui sopra: La guerra dell’Anello ha uno dei suoi fulcri in un centinaio abbondante di carte, in fondo non tantissime, ma pesanti come macigni e che vanno conosciute per poter padroneggiare davvero il gioco, posto che è altrettanto bello scoprirle man mano che si pescano (in una curiosa analogia, anche numerica, con quel gran pezzo di gioco che è Twilight Struggle).
Ogni fazione ha pertanto una cinquantina di carte a doppio uso – evento o bonus al combattimento – che dunque costringono a dolorose scelte, giacché possono essere utilizzate una volta sola e gli scarti non vengono più riutilizzati. Mediante queste carte entrano in gioco un sacco di elementi cavati fuori dal libro, dagli ent finanche a Tom Bombadil.

Il ritorno del meh
Le miniature.
Dunque.

Rimangono le unità militari e i comandanti dei popoli liberi. Allora: qui ci sono due ordini di problemi. Il primo riguarda il materiale, una plastica molle che fa sì che gran parte delle miniature siano svergole e che invece che impugnare lance sembrino brandire Wienerli lessati. Occorre portar pazienza e, per chi volesse, provare coi metodi della nonna dei miniaturisti: acqua calda e subito acqua ghiacciata o, volendo, fon per i capelli. Ho provato, non ho ottenuto granché, ma è anche vero che ho poca voglia di sistemarle.
Il vero problema è però la riconoscibilità delle nazioni. Le unità delle due fazioni si distinguono a colpo d’occhio, essendo azzurre quelle dei popoli liberi e rossi i loro avversari (nessuna confusione anche tra i comandanti, essendo i nazgûl decisamente riconoscibili).
Le cose si fanno più complicate quando si tratta di distinguere tra di loro le truppe delle nazioni alleate, a meno che voi non siate di quelli che prendono un mese di ferie per pitturare tutte le miniature del gioco.

Va un po’ meglio coi soldati regolari, una volta che si capisce che quelli con le picche a croce sono di Gondor e che i soldati di Rohan c’hanno il cavallo sullo scudo.
Beninteso: non è un dramma; ma è un fattore che può creare qualche complicazione se all’interno di un esercito ci sono delle unità di nazioni non ancora in guerra, che quindi non possono per esempio oltrepassare i confini nemici
(Il problema per gli eserciti dell’Ombra si avverte decisamente di meno, soprattutto per la caratterizzazione delle truppe d’élite: mannari, troll e olifanti.)

Quanto al resto, ottime le carte, di un formato che fa sacramentare in linguaggio nero chi vuole mettere le bustine, ma che valorizza il doppio uso delle stesse. Bellissimi i dadi azione (seppur chi ha la prima edizione dice che lì erano ancora meglio), funzionali i segnalini una volta fatto il callo agli stemmi delle varie nazioni.
In commercio si trovano diversi elementi 3D per ricreare i luoghi della terra di mezzo; personalmente ho ordinato il Monte Fato (non essenziale) e le catene montuose, quelle sì utili a ribadire che certi confini non possono mai essere oltrepassati.
Tolkien heads

A fronte delle mie due partite, una per fazione, perse entrambe, non mi dilungo certo in considerazioni di tipo strategico e tattico: in rete potete trovare tutto quanto vi serve (insieme ad altre cose simpatiche come degli scenari di durata ridotta).
Mi limito a sottolineare la notevole asimmetria del titolo (per obiettivi, strategia, condizioni di vittoria) e il grande bilanciamento ottenuto dagli autori, rodato da quasi due decenni di partite.

Anche più de Il ritorno del re.
Il fatto poi di avere alcuni elementi ormai desueti – oggigiorno credo che nessuno proporrebbe più una meccanica come quella dei dadi azione – lo rende peraltro poco appetibile anche agli occhi di chi vuole farsi una cultura mirata all’aggiornamento nel campo dei giochi da tavolo (banalmente, portarsi in pari con lo stato dell’arte); ne consegue che, con un certo grado di approssimazione, La guerra dell’anello è un gioco perlopiù destinato a chi è appassionato non tanto di (high) fantasy, quanto proprio dell’opera di Tolkien o, in seconda battuta (ma nemmeno poi troppo) dei film di Jackson, conscio di non ritrovare nel gioco l’immaginario di questi ultimi, bensì gli straordinari disegni di John Howe.

Provatelo, se vi capita.
Trovate qualcuno che ve lo sappia spiegare e provatelo.
Ché prima o poi quel giorno arriva.