Dai, facciamo un bel pippone. È il momento
Intanto permettetemi ma certi accostamenti proprio non sono pertinenti. La differenza non è lieve tra l'importare un nuovo lemma dall'estero (cosa del tutto naturale) e il modificare la struttura grammaticale di una lingua introducendo una nuova desinenza mediante un carattere ed un fonema estranei. Partiamo da un presupposto: la pronuncia di una parola estera viene sempre adattata nella lingua di arrivo. Prendiamone una di derivazione straniera che presenterebbe la schwa nella pronuncia:
computer. Come la pronunciamo? Kom'pju:ter o Kəm'pjutə(r)? È ovvio che la sentiamo pronunciata sempre nel primo modo, perché più armonico con i nostri fonemi. È evidente che introdurre un fonema nuovo è qualcosa di ben più complicato, per nulla paragonabile all'importazione di nuove parole (e ancor più agli errori di battitura, ma immagino che quelle sopra fossero mere provocazioni). Questo perché esistono esigenze
reali con cui i propositi ideali non possono che scontrarsi.
La lingua non è totalmente sotto il nostro controllo. E soprattutto è del tutto opinabile che le discriminazioni dipendano da esse. In una lingua che ha due generi è normale che si ponga il problema di renderne uno onnicomprensivo. È possibile che il previgente sistema patriarcale avesse contribuito in maniera determinante in quella scelta, ma è altrettanto vero che nella lingua italiana il genere grammaticale non è di per sé legato al sesso biologico – quante guardie giurate hanno lamentato discriminazioni per essere chiamate con un sostantivo femminile? e quante donne e uomini si sono sentiti discriminati per essere stati chiamati, rispettivamente, «individuo» o «persona»? – e, soprattutto, la realtà sociale sta già superando le imperfezioni del linguaggio connesse alla necessità ineluttabile di scegliere un genere onnicomprensivo fra gli unici due disponibili (un esempio fra tanti: la già citata maggioranza femminile nel ceto forense). Vi è poi da non dimenticare che l'italiano conosce da sempre molti termini
gender-neutral, se vogliamo metterla in questo modo. Perciò, se uno pensa che sia possibile mutare la realtà a partire dal linguaggio, cosa per me velleitaria, può comunque già tentare di farlo seguendo altre strade che risultino più naturali ed armoniche con il nostro idioma. Imporre un cambiamento così radicale alla maggioranza delle
persone (termine femminile ma neutrale, per l'appunto) vi pare davvero possibile? Ma soprattutto davvero vi sembra utile? L'ho già detto altrove ma lo ribadisco: questo problema nasce oltreoceano proprio perché in quella parte del mondo non riescono a cogliere la dimensione materiale delle discriminazioni, perciò si concentrano sul (e si limitano al) piano ideale, simbolico. E lo fanno proponendo soluzioni tarate su problemi che però sono tipici della loro lingua, che non conosce il genere grammaticale. Molti giovani italiani oggi usano indicare nella sezione
bio dei propri profili social la loro percezione di sé attraverso i pronomi inglesi e questo non è un caso: in italiano il problema si pone molto, molto meno. Addirittura, faceva notare quel giornalista di cui parlavo, lo fanno perfino i giovani finlandesi, che nella loro lingua conoscono solo pronomi neutri.
Ora, tutto questo discorso del genere deriva proprio dalla concezione antiessenzialista postmodernista, che riduce il naturale al culturale: il piano reale, percepito come statico e in un certo senso supino rispetto a quello culturale, viene continuamente plasmato da quest'ultimo, l'unico tra i due ad essere ritenuto rilevante e dinamico. Perciò il genere, da (reale) questione psicologica dell'individuo, assume i contorni di un'entità culturale che va scardinata proprio perché inquadrata come costrutto meramente ideologico – e non come approssimazione (imperfetta) dell'esistente – nonché come mezzo
politico per ottenere un fine: la perpetrazione dell'opposizione binaria. Questo che comporta? Beh, semplice: non esistono più né un'identità maschile né un'identità femminile, perché genere e sesso non vanno più in contraddizione. La stessa percezione del corpo biologico diventa qualcosa di definito culturalmente, perciò riplasmabile a partire proprio dal piano culturale, cioè anche dal linguaggio.
Questo modo di pensiero non è univocamente accettato nel mondo LGBTQ+. Per esempio, non sono pochi a percepirlo come un attacco all'omosessualità. Allargando ulteriormente lo sguardo si può apprendere come pure molte femministe non lo vedano di buon occhio, in quanto contrario alla dottrina della
differenza, che rivendica con orgoglio la femminilità. Questo dimostra, banalmente, che ridurre l'esistente a mere questione culturali vuol dire aprire ad una spirale particolarista, dove ciascuna categoria pretende di imporre la cultura funzionale all'imposizione della propria identità.
Ad essere eliminato è il rapporto dialettico fra natura e cultura. Perciò a molti di noi sembrano strane queste idee: ci appare indubitabile che nella crescita di ciascun individuo vengono in rilievo sia elementi di predisposizione naturale sia componenti di naturale educazionale, culturale. Come e quanto possano le seconde rimodellare le prime è tutto da capire, e soprattutto varia da cultura a cultura, nello spazio e nel tempo. Però rimane certo, per noi che
non accediamo a questa corrente filosofica, che una componente naturale permane. Che in alcuni individui questa possa "soccombere" a quella psicologica, come accade a chi decide poi di cambiare sesso, non è meramente normale: è proprio
naturale. Ma altrettanto naturali sono alcune differenze
tendenziali fra i sessi, che sono poi quelle che contribuiscono a determinare gli stereotipi. Le differenze tendenziali ovviamente non rappresentano la realtà, che è un complesso intricato di variazioni e peculiarità intermedie; tutt'al più la approssimano e pure grossolanamente, in modo chiaroscurale. Il punto però è che l'assenza di un confine netto tra identità maschile e identità femminile, così come la presenza di persone i cui orientamenti di genere sfuggono all'una e all'altra, non può per ciò stessa portare all'abolizione di queste categorie, che, per quanto imperfette e approssimative, rimarranno comunque
funzionali a rispondere ad esigenze
reali. L'alternativa è favorire contrapposizioni identitarie sterili ed incomponibili, permettendo alle molteplici percezioni soggettive di divenire centro di riferimento per il diritto e per la morale e, quindi, di elevarsi definitivamente ed irrimediabilmente su quella collettiva, con inevitabile acutizzazione delle tendenze centrifughe che stiamo vedendo, dove ognuno pretende che le convenzioni sociali, linguaggio compreso, vengano a riadattarsi sulle proprie necessità e peculiarità (l'opposto dell'inclusione, appunto). Visto però che il reale esiste e ha una sua autonomia dal culturale, l'unico effetto della negazione della dialettica fra i due piani è di negare anche quella tra individuo e collettività, proponendo soluzioni, come queste ortografiche, che non possono che essere percepite come aliene dalla maggioranza del corpo sociale di riferimento.
Spero che questo pippone, che rasenta l'OT, riesca a dare un minimo di contesto, magari spiegando come spesso alla base di queste diversità di vedute ci siano profonde divergenze filosofiche. Mi auguro anche che non venga gratuitamente additato come qualcuno che «odia il diverso e il cambiamento» per il sol fatto di ritenermi incompatibile con una filosofia che vede il reale come un'entità statica ed eterna. Certo è, però, che l'adozione di linee editoriali divisive, magari efficaci (almeno nel breve periodo) dal punto di vista pubblicitario, mi mette molta tristezza addosso. Per quanto ritenga che tutto sia in un certo senso "politico", dal momento che la politica è il precipitato pratico della nostra intima filosofia, sono comunque convinto che in certi ambiti, magari già inclini all'inclusione, come il nostro, sarebbe meglio andarci coi piedi di piombo.