I tre migliori giochi da tavolo di... Mark Herman

Una nuova top-3, anche stavolta scritta da Riccardo Masini

Approfondimenti
Giochi

La biografia apocrifa del signor Darcy

Ma niente, che cazzo dovrei aggiungere io, che di un esagono è già tanto se so calcolare l'apotema?


Introduzione e biografia

Quando si studiano le vite di personaggi importanti è facile incorrere nella fallace impressione che tutta l’esistenza di una determinata persona sia stata segnata da chissà quale destino primigenio già segnato dal principio, che ogni più misero fatterello dei suoi giorni in realtà nascondesse dietro di sé chissà quale significato recondito.

È proprio quel che succede quando ti metti a pensare ad una persona come Mark Herman e al tragitto da lui compiuto all’interno del mondo della simulazione storica. E la conclusione a cui arrivi è che, forse no, almeno per lui non proprio tutto accade per caso.

Gli esordi di Herman nel mondo degli esagoni e delle CRT sono decisamente poco gloriosi, in effetti. È la metà degli anni Settanta e il nostro giovane Mark, dopo aver evitato di finire in Vietnam solo perché la guerra è terminata pochi mesi prima che la sua classe di leva dovesse partire, si ritrova come tanti altri ragazzi americani della sua età con un bell’avvenire davanti a lui… ma ben pochi soldi in tasca.

Ora, la risposta del ragazzo americano medio a questo problema è semplice: trovarsi un lavoro. Anche Mark non fa eccezione, solo che ha la grande idea di unire l’utile al dilettevole, conciliando le sue necessità finanziarie con la sua grande passione: i wargame. Diventa così il “ragazzo” del front desk e del telefono della SPI, uno dei grandi produttori di giochi di simulazione, pronto ad accogliere nuovi clienti e a rispondere alle domande sui regolamenti. Poi, per rilassarsi e prima di far ritorno al suo microappartamento di una stanza e mezzo, Mark rimane anche dopo l’orario di lavoro. Prova così nuovi giochi e inizia la lunga e ingrata carriera del game developer a disposizione degli autori. Si tratta di una scuola importante per il giovane Mark, una sorta di addestramento sul campo che gli insegna il valore di aspetti come l’economia del game design, la chiarezza delle regole, le peculiarità pratiche della produzione editoriale, l’importanza del playtest e molto altro.

Il giorno in cui potrà mettere a frutto tutto ciò si fa improvvisamente molto vicino quando Mark viene presentato al fondatore della SPI, Jim Dunnigan. “L’unico uomo che io abbia mai chiamato capo”, come dirà decenni dopo Herman, è già una leggenda vivente del settore e prende in simpatia quel giovane sviluppatore volenteroso.

Grazie alla prima di tante importanti amicizie che costellano la sua vita nel mondo della simulazione storica, Herman si trova di colpo catapultato nella “serie A” degli autori. Assieme a Dunnigan curerà infatti il regolamento del primo titolo che egli poi considererà come il proprio debutto, The Battle for Jerusalem 1967, per poi passare a veri e propri classici come Mechwar 2, Across Suez, The Next War.

Tutto andrebbe per il meglio, dunque, se non per il fatto che poco tempo dopo la pubblicazione dei suoi primi titoli Herman è costretto come tanti a vedere la SPI fallire sotto il peso dei debiti, di una poco avveduta politica di gestione degli abbonamenti della rivista collegata Strategy & Tactics, ma soprattutto per colpa delle prime avvisaglie della grande contrazione che si abbatterà sul settore wargamistico nei primi anni Ottanta.

Mark però è giovane, lo abbiamo detto, e assieme ad altri autori e sviluppatori fonda l’erede ideale della SPI, la Victory Games. Qui la filosofia cambia rispetto all’approccio minimalista della SPI: la Victory è una casa figlia della corrente iperspecializzatrice di quegli anni così tormentati per il settore, e Herman contribuisce a definire quell’approccio così rigoroso con titoli molto impegnativi quali France 1944, The Pacific War, Gulf Strike.

Quest’ultimo gioco determinerà una vera e propria svolta nella vita di Mark, quando nel 1990 il Pentagono si accorgerà di non possedere piani aggiornati di schieramento nella regione del Golfo Persico subito dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein. In quel momento, però, un ufficiale si ricorda di aver visto uno scenario ipotetico anni prima in uno dei wargame a cui giocava da ragazzo… ed era proprio Gulf Strike di Herman.

Il telefono del nostro Mark squilla subito: il Pentagono lo vuole come consulente. Herman ovviamente non se lo fa dire due volte e mette a frutto questa opportunità, diventando anche un rinomato analista e autore di approfondite ricerche storiche per il Naval War College. Una di queste ricerche verte su di una grande passione: gli storici antichi e in particolare il Tucidide della Guerra del Peloponneso, da cui scaturire quel gioiello di “solitario – non solitario” che è Peloponnesian War.

Nel frattempo, la Victory Games chiude, mentre i giocatori si fanno più radi. Molti autori lasciano perdere e si dedicano ad altro, ma Mark non demorde. A lui i wargame storici piacciono davvero, come anche al suo secondo grande amico, Richard Berg, un altro autore decisamente prolifico ed eterogeneo (con titoli che vanno dal primo War of the Ring al celeberrimo e complicatissimo Campaign for North Africa!).

Berg e Herman sono forse una strana coppia, tanto scombinato e vulcanico il primo quanto pragmatico e posato il secondo, ma insieme sono inarrestabili. Un giorno Berg parla a Herman di una nuova piccola casa produttrice che ha deciso di investire in quel settore ludico apparentemente alla frutta, una certa roba strana chiamata GMT Games, e i due si mettono subito di buona lena per creare i primi titoli di quella fondamentale serie denominata Great Battles of History.

Fondamentale perché con le sue regole, certo molto dettagliate ma anche davvero ben congegnate, il dinamico duo crea un sistema capace di ricreare con estrema precisione le più grandi battaglie dell’antichità e non solo, infondendo nuova linfa vitale al settore, mantenendo attorno ai tavoli i giocatori già esistenti e addirittura cominciando ad attrarne di nuovi!

Di nuovo, però, a Herman questo non basta. Il settore rimane stagnante, le innovazioni che un tempo lo dominavano ora sono poche e non significative, l’età dell’oro pare definitivamente tramontata.

Questo finché un giorno la figlia di Mark non gli chiede di giocare ad uno strano gioco di carte fantasy, in cui i giocatori si sfidano a suon di incantesimi ed evocazioni, con regole semplici e con le eccezioni distribuite per l’appunto sulle singole carte. Quel gioco si chiama Magic: The Gathering.

Le carte… forse è proprio questo l’approccio migliore per rappresentare tutti quegli aspetti non cinetici che Herman vorrebbe includere nel suo nuovo titolo sulla Guerra d’indipendenza americana. Il gioco si chiamerà We the People, stranamente pubblicato non da GMT ma da un’Avalon Hill ancora viva ma già in crisi, e risulterà rivoluzionario non solo per il tema bensì per il suo valore ludico: questa volta, infatti, le carte non sono solo un elemento accessorio, bensì il motore del gioco, capaci con la loro versatilità di evitare stratificazioni di regole e tabelle per rappresentare gli elementi più svariati e meno ponderabili di una guerra. Il primo card-driven game, la famiglia di titoli che poi ci porterà giochi come Annibale e Amilcare o Twilight Struggle, tanto per dare un’idea.

Tornato in casa GMT, e forse canticchiando It’s a kind of magic, Herman inizia a sfornare una lunga serie di CDG, come l’ancor più dettagliato For the People dedicato alla Guerra di secessione, il più essenziale e rivisitato Washington’s War e il vero capolavoro del genere: Empire of the Sun, che ci porta sulle isole e sulle sterminate distese azzurre di un Oceano Pacifico in fiamme durante la Seconda guerra mondiale. Tutti giochi che non solo rappresentano un gigantesco passo in avanti in termini di game design e di maggiore profondità della simulazione (evitando al contempo gli indebiti appesantimenti di regole tipici degli anni Ottanta), ma danno una rinnovata importanza all’approccio autoriale del game designer che, diversificando gli aspetti rappresentati nella simulazione, può far meglio trasparire la propria personale interpretazione degli eventi, al pari del compilatore di un saggio storico.

E qui entra in scena la terza grande amicizia, questa volta però con un uomo più giovane e ancora alle prime armi, per quanto maledettamente promettente: Volko Ruhnke.

Il nuovo arrivato nell’ormai sempre più in crescita gruppo di autori che si raccolgono attorno alle tre lettere della GMT è bravo e lo ha dimostrato da subito. Ha giocato proprio sul “campo di casa” di Herman, i card-driven games, ricreando la Guerra franco-indiana di metà Settecento con quel suo Wilderness War così potentemente asimmetrico e innovativo. Herman è impressionato, come tutti del resto, e fa la cosa giusta: si fa amico il giovane autore e per molti versi lo prende sotto la sua ala protettiva. I due, come è ovvio, iniziano a pensare ad un titolo da creare assieme, magari nella nuova serie concepita proprio da Ruhnke per rappresentare i conflitti irregolari e non lineari, i giochi COIN. E quale conflitto più irregolare e non lineare di quello stesso Vietnam, da sempre rimasto questione irrisolta anche per lo stesso Herman?

Nasce così Fire in the Lake, forse non il titolo più accessibile della serie COIN, ma di sicuro uno dei più ricchi e sfaccettati, soprattutto per il suo sapiente intreccio tra aspetti cinetici (sì, con elicotteri che bombardano villaggi con la musica di Wagner e soldati che ascoltano tutto il giorno la radio di Good Morning, Vietnam!) e politici (con un governo sudvietnamita che passa allegramente da un colpo di stato all’altro, e i nordvietnamiti divisi tra regolari di Ho Chi Minh e gli ideologicamente non omologabili combattenti Viet Cong).

Con questo nuovo titolo Herman fa un passo in più nel suo percorso di ridefinizione del concetto stesso di wargame facendo dell’aspetto non cinetico (politica, economia, cultura…) non più un elemento accessorio, bensì una variabile di pari valore all’interno delle funzioni matematiche alla base della simulazione. Il passo successivo, ovviamente, è quello di fare di tale aspetto l’elemento principale di un titolo, al punto da portare i giocatori a chiedersi se ci si trova di fronte ancora ad un wargame o a qualche altra cosa…

Il dubbio assale chiunque si piazzi davanti al tabellone di Churchill, primo titolo della serie Great Statesmen, in cui la guerra non la si combatte più spostando divisioni su di una mappa ma avanzando le proprie “questioni” su di una serie di track concettuali a tre, saltando da una conferenza all’altra tra i tre grandi Alleati (USA, UK, URSS) della Seconda guerra mondiale. La dinamica è quella del “cooperativo ma non troppo”, l’effetto finale è del tutto straniante e sarà rafforzato da due titoli successivi, diversi per regole ma non per filosofia: Pericles e Versailles 1919 (a cui sta per aggiungersi Triumvir, sugli ultimi anni repubblicani della Roma antica).

Su di un altro fronte, Herman spinge poi l’acceleratore sul versante della semplificazione e soprattutto dell’ibridazione tra simulazione e giochi di ispirazione “euro” con una curiosa proposta. Fort Sumter, anch’esso primo di una nuova serie di giochi denominata Lunchtime Series (letteralmente “giochi da pausa pranzo”), parte dalle meccaniche fondamentali di 13 Giorni e ci impartisce una profonda lezione storica sul concetto di “contenimento di una crisi ingestibile”, mettendoci nei panni di Nord e Sud immediatamente prima della Guerra di secessione, contendendoci i singoli centri di potere, alzando sempre di più la tensione per ottenere nuove risorse da spendere ma cercando di lasciare all’avversario il cerino in mano della responsabilità finale del conflitto.

E in tutto questo, il wargame tradizionale? Ecco, forse è questa la sua preoccupazione più pressante di questi anni, rassicurare i grognard che no, il ragazzo della SPI è ancora vivo e combatte assieme a loro per la gloria dell’esagono. Però lo fa a modo suo, curando da un lato una lunga serie di ristampe di suoi vecchi classici soprattutto presi dal catalogo Victory Games (anche se, magari, un attimo rimodernati nelle meccaniche e nella presentazione), dall’altro… dall’altro buttando di nuovo tutto all’aria.

È infatti con due giochi comparsi all’interno della rivista C3i, Gettysburg e Waterloo Campaign 1815, che Herman compie i primi esperimenti di un nuovo sistema che sarà finalizzato in Rebel Fury, raccolta di scenari di alcune tra le più importanti battaglie della Guerra di secessione. La caratteristica? Semplicemente infrangere buona parte delle convenzioni classiche in termini di attivazioni, sequenza del turno, zone di controllo e altro su cui si sono basati i wargame hex and counter degli ultimi cinquant’anni. Perché, sì, questi giochi utilizzano esagoni e pedine, ma introducendo concetti come la zona d’influenza allargata che impone delle modifiche alle caratteristiche delle unità non appena vi entrano, un numero di attivazioni e riattivazioni decise autonomamente dai due giocatori e un sistema di combattimento a semplici differenziali Herman fornisce una visione molto più dinamica e interattiva della manovra militare, per certi versi non dissimile da quella dei videogiochi tattici in tempo reale, al contempo riducendo davvero all’osso l’impianto delle regole e la durata della partita (4-5 pagine, dai 60 ai 90 minuti).

Di nuovo innovazione, innovazione e innovazione. Una costante che ritroviamo nelle tre grandi caratteristiche dello stile di Mark Herman.

Originalità. Giocare ad un titolo di Herman è sempre un’emozione perché, semplicemente, non sai mai cosa attenderti da un autore che ha fatto dell’innovazione in ogni suo regolamento il proprio credo personale. Uno alla volta, tutti i giochi di Herman rappresentano un lungo percorso di affinamento, allargamento e perfezionamento del concetto stesso di simulazione, alla ricerca di una più profonda rappresentazione degli eventi storici mediante poche ma riconoscibilissime meccaniche. Forse è per questo che nella sua carriera troviamo titoli con le meccaniche più disparate, tutte considerate solo per la loro efficacia, senza alcuna concessione verso convenzioni o soluzioni puramente di stile: Herman va al sodo, valorizza poche meccaniche altamente riconoscibili e usa solo gli strumenti più efficaci ai fini della sua trattazione… e se non li trova, li inventa.

Inserimento di variabili non lineari. Strettamente collegato al punto precedente, la tensione di Herman verso un’analisi storica che vada al di là del dato puramente cinetico lo porta ad inserire nei suoi regolamenti aspetti spesso legati a dimensioni più sfuggenti come la politica, la psicologia delle masse, l’economia, gli eventi della più varia natura. Rientrano in questo senso anche le opzioni che lascia ai giocatori, permettendogli di instaurare dinamiche di bluff, inganno e sotterfugio, suggerendogli più che imponendogli gli utilizzi più disparati e fantasiosi delle risorse a loro disposizione. Altro che andare alla ricerca di un mero +1 o di un rapporto di forze favorevole: ad ogni mossa vi chiederete se l’improvvisa inattività del vostro avversario è dovuta ad una sua reale difficoltà o alla preparazione di una machiavellica manovra a sorpresa.

Resa dell’ambientazione. Questo è l’obiettivo assoluto di Herman, assieme al mantenimento comunque di una buona giocabilità, anche nei suoi regolamenti più complessi ed impegnativi, una volta “domati”. Ogni singolo elemento del gioco è pensato, calibrato, congegnato di modo da fornire una rappresentazione quanto più possibile completa e coinvolgente degli eventi, anche andando al di là delle convenzioni più classiche del wargame. In questo egli risulta ancor più simulativo di tanti altri autori che si sono lasciati irretire dalle solite meccaniche viste e riviste, talvolta più utili al mantenimento di una certa idea di simulazione che all’efficacia della rappresentazione fornita ai giocatori.

Come ottenere questi risultati? Vediamo come c’è riuscito Mark Herman in questi suoi giochi, presi dalla sua lunghissima e variegata ludografia.

Peloponnesian War
qualcuno ha detto tragedia greca?

Quella della Guerra del Peloponneso pare essere una sorta di piccola ossessione per il nostro autore. Forse è il fascino di Tucidide, lo storico principale di quel conflitto e secondo molti il padre della storiografia scientifica moderna. Forse sono le suggestioni che ancor oggi produce quella guerra di tanti secoli fa, così remota nel tempo eppure così vicina al nostro presente. Forse Herman la considera un caso paradigmatico di conflitto di attrito avvitatosi su sé stesso, in cui l’unico interesse per entrambi i contendenti (al di là di chi vinca o perda ufficialmente) è farla finire prima che arrechi troppi danni a tutti.

In effetti è proprio questa la chiave principale di uno tra i wargame più singolari mai realizzati, un gioco di guerra in cui l’obiettivo primario è concludere la guerra stessa, anche perché il giocatore si ritrova a confrontarsi con l’avversario più temibile che possa mai trovare: sé stesso. Sì, perché Peloponnesian War è un solitario, ma lo si gioca in due, uno a turno… si parte al comando di una fazione, con il sistema che gestisce automaticamente l’altra… si fanno le proprie scelte, si devastano campi e città costiere del nemico, si cercano nuovi alleati, si domano rivolte, magari si combatte anche qualche battaglia ogni tanto… ma se non riusciamo a ottenere rapidamente un vantaggio abbastanza elevato rispetto all’avversario, a un certo punto… beh, a un certo punto semplicemente passeremo dalla sua parte, con il sistema che prenderà il comando delle truppe fino a quel momento sotto il nostro controllo, ritrovandoci così a combattere letteralmente contro noi stessi e le nostre scelte. Ovviamente, prima si pone termine alla guerra e maggiore sarà il nostro punteggio finale.

Herman ha sempre detto di essersi ispirato alla figura storica di Alcibiade per questi continui cambi di fronte, ma i più esperti ritrovano molto dell’insegnamento di Dunnigan e delle sue “genialate” (un po’ come il vecchio Jim aveva fatto con i giocatori “incrociati” di Battle for Germany: il Sovietico che controlla anche i Tedeschi a Ovest, l’Alleato che guida anche i Tedeschi a Est e il primo dei due che arriva a Berlino ha vinto). Anche Herman qui trova una buona idea (il solitario “mobile”), la trasforma in una meccanica efficace e immediatamente riconoscibile, mantiene quanto più possibile snello e semplice il resto delle regole e poi ci costruisce sopra tutto il resto. Un’esperienza unica, insomma, che però ha lasciato traccia di sé in molti altri titoli successivi, oltre a soluzioni deliberatamente opposte come la modalità in solitario di Versailles 1919 in cui invece lo scopo è quello di rimanere sempre in testa e vincere… ma non troppo, perché a un certo punto ci ritroveremo nei panni dell’ultimo e dovremo ricominciare daccapo la nostra scalata.

Il gioco, pubblicato originariamente nel 1991 da Victory Games è stato recentemente rieditato in una versione rimodernata e ampliata da GMT Games, contando tra l’altro su uno degli ultimi regolamenti scritti dal compianto Chad Jensen, mirabile esempio di chiarezza espositiva dal taglio visibilmente differente rispetto ad altri manualoni della stessa casa editrice (e, talvolta, dello stesso Herman…).

Empire of the Sun
la Yamato in B4 dà scacco in due mosse alla Yorktown in D8

Una cosa che non tutti conoscono è l’estrema e divorante passione di Herman per gli scacchi. Il nostro Mark è proprio uno di quei maestri scacchistici capaci di giocare dieci partite contemporaneamente, trovano in questo antico gioco sia una continua sfida intellettuale che uno strumento di riposo mentale. Era inevitabile che cercasse di ricreare qualcosa di simile anche nel suo secondo passatempo preferito, inventare alcuni tra i più rinomati wargame della storia dell’hobby, e chiunque si sarebbe aspettato da lui un titolo astratto, certo diverso da ogni altro ma comunque lontano dagli aspetti più simulativi.

E invece la risposta di Herman arriva sotto forma di uno dei suoi titoli apparentemente più vicini al wargame tradizionale, con tanto di esagoni, zone di controllo e segnalini ricolmi di numeri e simboletti assortiti. Il punto di partenza è quel suo Pacific War (anch’esso Victory Games, anch’esso in fase di ristampa da parte di GMT Games) che a metà degli anni Ottanta appariva come il più tipico monster game plurimappa, con centinaia di counter e tabelle su tabelle su tabelle. Solo che Pacific War sarà uno degli ultimi titoli di Herman a mantenere quell’aspetto e fornirà unicamente il canovaccio iniziale per quello che in seguito diventerà venti anni dopo, nel 2005, Empire of the Sun.

Herman ha sempre dichiarato di aver voluto creare un gioco capace di rappresentare l’interezza della Seconda guerra mondiale nel Pacifico con un livello di dettaglio paragonabile al vecchio titolo della Victory, ma senza dover impiegare necessariamente le quindici e passa ore richieste per una tale impresa. In più, vi riversa tutta la sua esperienza pregressa nel campo dei card-driven games e, come abbiamo detto, sottili suggestioni scacchistiche negli equilibri di forza tra le parti.

Questo perché ogni singola carta rappresenta o un evento specifico o una singola operazione, apparentemente restringendo le opzioni in mano ai giocatori. Tuttavia, ci si accorgerà ben presto che ad ogni mano i due contendenti si troveranno a dover scegliere non tanto dove attaccare, ma se passare effettivamente all’offensiva, scoprendosi magari in un altro settore dello “scacchiere oceanico”, riducendo la propria capacità di reazione, precludendosi da soli la possibilità di effettuare altre mosse magari in un secondo momento ancor più proficuo. A questo si unisce un sistema combinato di gestione della logistica e dei raggi di intercettazione che, alle classiche zone di controllo costituite dai singoli esagoni adiacenti alla pedina, unisce anche una zona di influenza più ampia che determina la possibilità di reagire o prevenire l’intervento delle formazioni nemiche vicine.

Le singole battaglie diventano così dei veri e propri “magneti” in cui tutte le unità possono convergere… a patto però di aver scelto con cura l’esagono in cui portare il nostro attacco onde evitare che il nemico possa agevolmente richiuderlo e trasformare la nostra stessa offensiva in una trappola letale.

Vi è forse anche un po’ di gioco del Go in tutto questo, il che pensandoci bene è profondamente appropriato. Con tutti questi strati, insomma, Empire of the Sun pur non essendo un titolo facile da imparare racchiude una quantità pressoché infinita di possibili variazioni strategiche e mantiene intatto il suo fascino tra i giocatori più raffinati a quindici anni dalla sua uscita, restando certo molto impegnativo ma dalla durata e complessità tutto sommato gestibili. Nella sua ultima edizione il gioco comprende anche un sistema per il solitario e lo scenario introduttivo South Pacific: Breaking the Bismarck Barrier, focalizzato sulle azioni intorno alle Isole Salomone e al Mar dei Coralli nella prima fase del conflitto: un ottimo modo per apprendere le meccaniche di fondo senza perdersi, letteralmente, nell’oceano di possibilità fornite da un sistema così ampio ed originale.

Churchill
...ma siete proprio sicuri che sia un wargame?

Come si combatte una guerra all’interno di una coalizione? Questa è stata la domanda che si è fatto il nostro autore quando ha pensato per la prima volta ad un titolo così singolare da portare in tanti a chiedersi in che modo considerarlo…

Perché, vedete, in Churchill la guerra c’è, senz’altro, ed è anche bella evidente nella seconda metà del tabellone, rappresentata con delle track su cui i diversi fronti nel mondo si muovono verso i loro obiettivi. Il problema, però, è che questa mappa geografica del conflitto, peraltro pure piuttosto astratta, non solo è la seconda metà del tabellone ma è preceduta da uno strano “trittico” di linee convergenti verso il centro, riportato sopra un tavolo da conferenze.

Quelle conferenze che scandiscono i diversi turni di Churchill e che, questione dopo questione, determinano il bilanciamento dello sforzo congiunto dei tre grandi Alleati contro l’Asse (Stati Uniti, Regno Unito, Unione Sovietica)… oltre però alla definizione degli equilibri globali del “mondo che verrà” dopo la guerra, determinando la creazione (o la deposizione) di governi fantoccio e reti politiche clandestine su tutto il pianeta. Gli scontri più importanti in Churchill non si combattono dunque sui campi di battaglia della Normandia, dell’Ucraina o delle Filippine, bensì nelle stanze ovattate delle conferenze di Teheran o di Yalta, dove i vari personaggi dei rispettivi staff si confrontano spostando fisicamente i segnalini delle questioni sulle varie linee per decidere se e quando si aprirà il secondo fronte in Europa, se le risorse industriali americane dovranno sostenere lo sforzo bellico sovietico o se andranno dirottate verso la creazione di una bomba atomica, se le operazioni nel Pacifico saranno a guida americana o britannica, come anche se il mondo vedrà l’applicazione generale del principio di autodeterminazione o la nascita delle Nazioni Unite. In più, le svariate condizioni di vittoria (perlopiù tutte asimmetriche tra le tre fazioni) portano certo punti, ma all’interno di un sistema singolarissimo in cui al primo giocatore conviene o vincere davvero di tanto oppure rimanere il primo senza un eccessivo distacco dagli altri due: in caso contrario scoppierà subito una Terza guerra mondiale in cui il malconcio vincitore politico della Seconda sarà presto travolto dall’alleanza tra gli altri due.

Di nuovo, equilibri su equilibri, sotterfugi e linearità. Perché, se sono il primo, potrebbe convenirmi aiutare il terzo anche contro i miei interessi più immediati, di modo da evitare un distacco eccessivo. Però, certo, se dessi una mano anche al secondo potrei ridurre lì il divario… sempre di non esagerare e non ritrovarmi solo come vincitore “morale” del conflitto, superato all’ultimo giro. Oh, e in tutto questo ci sarebbero ancora Germania e Giappone da sconfiggere, un’impresa tutt’altro che scontata perché conferenza dopo conferenza il tempo stringe e i continui bisticci tra gli Alleati rischiano di fare un gran favore sia a Berlino che a Tokyo.

L’esperienza di una partita di Churchill è tanto particolare quanto estenuante. I livelli strategici da tenere in considerazione (militare, diplomatico, politico, spionistico…) sono molteplici e tutti drammaticamente intrecciati tra di loro, con i segnalini delle questioni che volano da un capo all’altro del tabellone sospinti dal peso dell’influenza dei vari personaggi riportati sulle carte. Allo stesso tempo, però, nessuno aveva mai proposto una visione così ampia, variegata e semplicemente interessante della Seconda guerra mondiale, con un wargame che parla sì della “guerra”, ma di un’altra guerra: quella delle cancellerie, quella che determina l’effettiva conduzione del conflitto e che ci riporta ancora al caro vecchio von Clausewitz, vera stella polare di Herman. Perché se la guerra è una continuazione della politica con altri mezzi, è la lezione finale di Churchill, cos’altro è la politica se non una guerra combattuta con altre armi?

Conclusioni

Sarebbe forse esagerato affermare che Herman è stato il motore principale della tendenza all’innovazione dei wargame e poi alla nascita successiva degli ibridi euro-wargame. Il primo a rifiutare questa visione troppo assoluta sarebbe lui stesso: più volte, quando direttamente interrogato sull’argomento dell’impiego di meccaniche euro nella simulazione, la sua risposta è sempre stata che in realtà non esistono meccaniche tipicamente “da wargame” o “da eurogame”, esistono solo meccaniche che funzionano o non funzionano per rappresentare una data situazione. E del resto, per un autore che ha sempre affermato di incentrare il suo approccio prima di tutto sulle tematiche storiche, perché poi le meccaniche “vengono da sé”, un atteggiamento così tranchant non deve certo stupire.

Eppure… eppure lo abbiamo detto, Herman è al tempo stesso testimone e protagonista dell’innovazione del concetto di wargame dalle sue forme più tradizionali a quelle attualmente più avanzate, facendo tranquillamente coesistere anche a livello temporale titoli più corposi o perfino ascrivibili alla categoria dei monster games da un lato, con titoli assolutamente più snelli se non light o addirittura filler dall’altro. Di nuovo un altro insegnamento del suo vecchio “capo”, Jim Dunnigan.

Le sue caratteristiche fondamentali di game designer, dunque, non possono essere ristrette ad una categoria o sottocategoria, bensì rinvenute nella sua capacità di ridefinire continuamente cosa sia il wargame, proponendo innovazioni devastanti che diventano rapidamente “il nuovo normale”.

Ecco perché parlare di lui e della sua carriera è come parlare della storia della simulazione storica dagli anni Settanta a oggi, vista attraverso gli occhi di una persona che ne ha prima accompagnato e poi determinato le evoluzioni più importanti. E sempre all’ombra di quel suo sorriso sornione, dietro il quale non sai mai quale altra sorpresa si celi in attesa di essere scoperta, studiata… e giocata.

Commenti

E niente, Riccardo riuscirebbe a far desiderare di provare i wargame anche a chi gioca solo filler e party games

Agzaroth scrive:

E niente, Riccardo riuscirebbe a far desiderare di provare i wargame anche a chi gioca solo filler e party games

Verissimo, solo che per me sarebbe come cedere a pubblicità ingannevole e non perchè l'articolo dica il falso, solo perchè di fronte al sovrabbondare di regole "simulative" dei wargamre reagisco come Artaud quando gli annunciarono l'avvento del cinema sonoro e disse "adesso mi mancheranno gli odori".

Che bel articolo. Aria fresca. Grande Riccardo. Difficile scegliere una top 3 per il signor Herman, nel mio piccolo peró ci avrei messo "Pericles: the Peloponnesian wars". Gioco maestoso.

Ancora una volta un gran bell'articolo,  Riccardo! Leggerti è un piacere...

Molto bello e interessante questo post. Complimenti.

Ottimo articolo dell'enciclopedico Riccardo

Churchill è un gioco incredibile, con i soliti mille difetti che non manca mai di mettere nei giochi la GMT, ma rimane un gran titolo!

Al solito, vien voglia di investire tempo (ancor più prezioso del denaro dell'acquisto) per immergersi in questi giochi!
Si farà un psso alla volta, come in fondo ha fatto Hermann!

Bellissimo articolo su uno degli autori più innovativi del nostro hobby! Sai che per me "il Gioco" è Empire of the Sun 👺 e ora si allargherà con lo scenario Burma ❤️

Articolo interessantissimo.
Sarebbe altresì affascinante una serie di articoli prettamente di approfondimento sull'evoluzione delle meccaniche, quelle tabelle e tabelline dei wargame anni '80 esercitano un fascino perverso...

Articolo e divulgazione bellissimi!

Articolo stupendo, letto tutto d'un fiato... grazie Riccardo per questo interessante approfondimento, ignoravo gran parte della vita professionale di questo immenso autore

Beato chi li vuole solo provare, a me li fa comprare direttamente!

Mi ha fatto pure prendere il numero C3i con Gettysburg...e stava parlando di giochi napoleonici...maledetto...

Agzaroth scrive:

E niente, Riccardo riuscirebbe a far desiderare di provare i wargame anche a chi gioca solo filler e party games

Concordo! Trasmette tanta passione che dopo l'articolo su Ruhnke di alcuni mesi fa ho recuperato il prima possibile il gioco labyrinth.. complimenti x i tuoi bellissimi articoli 😀

Nulla da aggiungere, Mark Hermann un Genio e tu con questa recensione lo stesso.

Sono un umile wargamista, ho titoli di Hermann e di Ruhnke, posso dire che sono dei fottuti geni

Articolo bellissimo, complimenti!

Imparare da un articolo, non solo sentirsi rappresentati da esso.

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