piccolo grande classico. Consigliatissimo ancora oggi
Nel millenovecentonovantasette il Pathfinders appoggiava le chiappe su Marte, usciva il primo libro di Harry Potter e, soprattutto, nei cinema proiettavano Titanic – sembra passato un secolo, e invece è peggio, perché sono passati ventuno anni, nonostante quel pomeriggio poi diventato la sera lo ricordi come fosse ieri e niente.
Scusate, stavo dicendo?
Mi vendo (un’altra identità)
Ventun anni, in un settore in furiosa evoluzione come quello dei giochi da tavolo, sono un’eternità; eppure, quando stufi di rimirare una miniatura annoiata quanto noi riprendiamo in mano uno di quei bei giochi di una volta, succede spesso che, incredibile dictu, ci divertiamo. Molto.
Stefan Dorra, classe 1958, cognome latino ma animo basso-sassone, in quegli anni sospesi tra la fine ufficiale della guerra fredda e l’incertezza degli anni duemila propone giochi semplici, di pochi materiali e qualche buona idea, che non a caso stanno conoscendo una seconda giovinezza (stavolta con edizioni in genere più curate, giacché i materiali non sono più – lo sappiamo bene – un mero corollario): e, se Nyet!, per noi cresciuti a pane e carichi, in fondo non è che un bel briscolone, mentre Intrigue ancora divide la platea tra estimatori più che entusiasti e idealisti che quasi non lo reputano nemmeno un gioco (a causa della sua feroce meccanica che non conosce regole), ecco che almeno un titolo sfiora il capolavoro.
Che ho comperato (alla fiera di Sligo)
For sale è un gioco semplice – di quei giochi semplici che sono semplici davvero (non come quando convinco i miei amici a provare Le Havre dicendo che è semplice perché sì, in fondo è semplice). Al netto di una manciata di monete in cartone, il tutto è composto da due mazzi di carte – dimore e assegni – per altrettante fasi di gioco, ben distinte.
Nella prima fase un certo numero (trenta, ventotto giocando in quattro) di dimore – numerate dall’uno scatola di cartone al trenta stazione spaziale internazionale passando per casupole fatiscenti, jurte, case coloniali e ville sul lago di Como – vengono messe all’asta, in round successivi, sempre nel numero dei giocatori. Questi, che partono con un certo numero di monete da mille dollari – per dire l’inflazione – che non è mai rimpolpato, possono aggiudicarsele come e quante ne vogliono, tenendo presente che a ogni round i giocatori, man mano che passano, prendono la dimora col numero più basso tra quelle ancora disponibili e recuperano metà della puntata (come arrotondare è un mistero glorioso della storia delle traduzioni). Solo l’ultimo rimasto, che pure si prende la carta migliore, deve pagare a prezzo pieno.
Tutto qua; assegnati tutti gli assegni – si chiamano così per quello – chi ha più soldi, comprendendo anche le monete risparmiate nella prima fase, è il vincitore.
[Lancio di monete e di carte sul tavolo]
Venderò (il mio diploma)
Bel gioco, questo For sale: due regole due, scalabilità tutto sommato buona (meglio in più che in pochi, ma con gli opportuni accorgimenti si gioca perfino in due), materiali splendidi, almeno per la nuova edizione – ci ritornerò.
Soprattutto, una profondità sorprendente per quelli che sono i presupposti di cui sopra. La fase di asta è carica di tensione e necessita dell’ottimizzazione del gruzzoletto a disposizione; cruciale è riuscire a garantirsi carte buone – dal venti in su almeno – con puntate tutto sommato limitate, giocando molto sulle offerte avversarie e, soprattutto, sull’offerta del round: a volte (è il caso di round con un valore medio relativamente alto) conviene passare subito, o al più dopo aver puntato anche una sola moneta, garantendosi dimore più che dignitose a costo zero, dato che gli arrotondamenti sono per eccesso; in altre occasioni, di contro, diventa necessario spingere un po’ sulle offerte, se magari un ventinove si accompagna a tre stamberghe – capire a quanto debba equivalere quel “un po’” è, come in tutti i giochi di aste, il cuore del gioco. Anche in virtù del fatto che le monete avanzate possono avere un peso tutt’altro che indifferente nel punteggio finale.
(Alla fiera dell’est, per due soldi, un topolino) mio padre comprò
Il tutto con due considerazioni ulteriori: intanto, For sale sdogana le aste. Pensate a quanti giochi meravigliosi – Principi del Rinascimento, per esempio; ma anche, in misura minore, il clamoroso Alta tensione, se proprio non vogliamo considerare i ben più esosi The Great Zimbabwe e Tramways – comprate, per poi scoprire che al vostro gruppo, vai a capire perché, non piacciono le aste: ecco, se passa il concetto che le aste sono anche quelle di For sale, forse queste possono fare un po’ meno paura – o, quantomeno, potete scoprire per tempo che, alla fin della fiera, potete risparmiare un paio di organi.
Comprami (io sono in vendita)
Parlando dei materiali, le carte sono di buona qualità e si mescolano solo una volta a partita, quindi tecnicamente non sono necessarie le bustine – tanto più che non ci sono vere e proprie fasi con carte coperte (e comunque dove siano il ventinove e il trenta nella seconda fase bene o male lo si sa, se proprio non giocate coi nipotini mentre guardate Beautiful commentandolo su twitter con vostra cognata). Del resto io imbusto tutto a prescindere, e quindi il problema nemmeno si pone.
L’ergonomia del gioco, del resto, è accettabile – vero è che le monete potevano essere più grandi e che il formato delle carte, che pure sono ideali per raffigurare gli assegni, non facilita certo la gestione fisica del mazzo. Le illustrazioni, opera di Catell Ruz (pseudonimo di Charlène Le Scanff, artista francese trapiantato in California), sono fumettose quanto basta e non sacrificano troppo quella che poi è l’unica informazione che conta, ossia il numero.
D’ogni modo l’edizione uplay è bella. Sinceramente, pur accettando una confezione spessa, robusta e con la chiusura magnetica che sì, fa la sua porca figura, ma fa anche lievitare il prezzo di quello che rimane un gioco di carte; e pure chiudendo un occhio su quelle carte formato tarocchi di Cloris Brosca.
(A proposito, dovrei imbustare pure quelle.)