Giocato una sola volta in quattro, mi aveva lasciato un po' perlesso... Uno di quei giochi che riproverei, ma dei quali non sento la mancanza, ecco.
Per la serie Pipponi Non Richiesti, seguono le mie opinabilissime e mediorientali impressioni su Pax Pamir: Seconda Edizione di Cole Wehrle.
Il tutorial mi aiutò moltissimo e mi infuse fiducia nella mia capacità di poter assimilare le regole di un gioco che allora mi sembrava tra i più complessi in circolazione.
Il commento mi diede buone speranze sul fatto che le “vibrazioni” positive che il gioco sulla carta mi dava avrebbero potuto poi essere confermate.
Pax Pamir è ambientato nell’ottocentesca Asia centrale, teatro di scontri bellici, politici e diplomatici tra Afghani, Inglesi e Russi. Un tema che inizialmente mi suonava appetitoso quanto un piatto di crauti scaduti.
Il gioco è principalmente un tableau building al servizio di un gioco di “guerra”, in senso lato. Rientra nella serie Pax ideata dal mitologico (quasi quanto Ario) Eklund, ma questo Pamir risulta essere più asciutto e immediato rispetto, ad esempio, all’oscuro peso massimo Pax Renaissance (già oggetto di un altro Pippone Non Richiesto, su queste pagine, di prossima pubblicazione).
Nella serie Pax tornano alcune similitudini nel comparto regolistico, la principale delle quali è il mercato delle carte, poste su due file e a disposizione per l’acquisto da parte dei giocatori.
Altre similitudini si trovano nella morfologia delle carte, che quando vengono giocate innescano un “evento” immediato (posizionamento di pezzi in mappa o sulle carte) e che poi, fin quando restano in gioco, possono essere “attivate” per compiere alcune azioni, sulla base delle icone riportate in basso sulle carte stesse.
Intorno alle carte, cuore del gioco, si sviluppano meccaniche di controllo del territorio e di maggioranze, con un sistema di punteggio pressoché geniale innescato dalle quattro carte Dominio sparse nei due mazzi che alimentano il mercato.
Il proprio turno consta di due azioni principali (compra una carta e/o gioca una carta, in qualunque combinazione), più le eventuali azioni rese gratuite dal fantomatico “aspetto favorito”: ci sono quattro “semi” differenti (politico, militare, diplomatico ed economico), corrispondenti a simboli che compaiono sulle carte – ogni carta il cui seme corrisponde a quello “attivo” in quel momento, consentirà un’azione gratuita.
Ogni giocatore giurerà “lealtà” a una delle tre nazioni/fazioni, e la competizione tra i giocatori sarà su un triplo livello:
- la lotta tra le fazioni che perseguono il dominio sulle altre (quattro pezzi in mappa in più rispetto a ogni altra fazione), che in certe condizioni potrebbe implicare momenti quasi “cooperativi”, finchè non si arriva al punto 2;
- la lotta tra giocatori appartenenti alla medesima fazione, per ottenere il controllo della fazione dominante;
- la lotta diretta tra tutti i giocatori, indipendentemente dalle fazioni, qualora nessuna di queste fosse dominante sulle altre.
Non provo nemmeno a riassumere ulteriormente le regole – ci sono miliardi di altri post, recensioni e tutorial che lo fanno benissimo.
Quello di cui qui mi preme parlare è il quadro generale, la sua cornice e alcuni dettagli che caratterizzano questo mattoncino “rigenerato” dalla sua seconda edizione.
Prima di tutto, la cosa più semplice di cui parlare: estetica e materiali.
È semplice perché è l’aspetto più banale e soggettivo, ma è semplice anche perché per la mia sensibilità e i miei gusti questo è una delle massime espressioni di arte al servizio dell’hobby ludico, senza molto altro da aggiungere.
È da qualche tempo che le case editrici ci stanno abituando a tabelloni grandi quanto un letto a due piazze, a plance che sembrano astronavi e in generale a soluzioni ergonomiche che, mi si consenta l’iperbole, costringono il giocatore a mettere in conto di dover spendere, oltre ai soldi per il gioco in sé, anche quelli per un tavolo-portaerei e, di conseguenza, per una casa più grande adatta ad accoglierlo.
Avete visto il “tabellone” di Pax Pamir?
È un fazzolettino. Letteralmente. Occhio a non sbagliarvi se mentre giocate siete raffreddati e un po’ distratti.
Pare una critica, ma non lo è: quel fazzolettino è di una semplicità e di una eleganza senza molti eguali.
Su quel pezzo di stoffa, probabilmente ricamato a mano da Nonna Wehrle, appariranno strade e armate nella forma di parallelepipedi, o mattoncini, che da lontano potrebbero sembrare quelle mini-saponette che di solito si rifilano a Natale alla zia cui non si sa cosa regalare.
Pare una critica, ma non lo è: quei cosi sono semplicemente belli, pesanti, si “innestano” perfettamente nell’estetica generale e se come me siete sensibili al valore dell’esperienza visiva e tattile, non potete non rimanerne affascinati.
È un gioco da pugni sul mento, ginocchiate sui denti, coltellate alle spalle, sportellate in faccia, e via dicendo.
Astenersi solisti perditempo.
Suscettibili e permalosi, via dalle palle.
Si può avere un’idea strategica da perseguire, ma i continui stravolgimenti nelle “corti” avversarie (le carte giocate) faranno saltare i piani, ci si troverà spalle al muro, si trameranno vendette, tradendo all’occorrenza, sacrificando pezzi propri per far male, e di più, all’avversario. È un aspetto marginale del gioco, ma si può anche negoziare, scambiandosi favori e stringendo alleanze di dubbia solidità – che per me, in un gioco del genere, è la proverbiale ciliegina.
È importante il colpo d’occhio, per identificare le carte migliori e più utili alla causa strategica o a rimuovere l’ostacolo contingente. È importante anche essere pronti a cambiare casacca e garantire la propria lealtà a un’altra fazione, stravolgendo il proprio tableau, la propria strategia, il proprio gioco.
Il tema c’è, è vivo, soprattutto se ci si prende la briga di leggere il testo sulle carte – in questo senso, Pax Pamir sembra un Bignami iperconcentrato, che racconta su ogni singola carta un pezzo di quel conflitto, storicamente noto come il “Grande Gioco”: i personaggi, i luoghi, le vicende – sono tutte lì, piccole piccole, frutto di un grande studio alla base del gioco, e che invitano i più curiosi a un approfondimento. Può non interessare, ma l’accuratezza e l’attenzione al tema sono un ulteriore plus.
Potrebbe non interessarvi il tema, ma – se non siete tra i cuori fragili che temono l’alta interazione – Pax Pamir funziona che è un piacere.
Non so se è “bello da fare schifo”, ma è tra i giochi migliori in circolazione per i miei gusti personali, per il suo livello di complessità. Il setup è piuttosto veloce (occorre solo “creare” i mazzi delle carte e srotolare il fazzolettino). Il tempo di gioco potrebbe rivelarsi sorprendentemente breve, in certi casi. Profondo e caciarone allo stesso tempo.
Giocato in quattro e in cinque è molto meno controllabile, com’è ovvio che sia, ma rimane notevole. In due, purtroppo, è dimenticabile. Ma personalmente nutro un grande sentimento per Wakhan, automa per il gioco in solo, che bara come pochi ma che si fa volere un gran bene e alla fine gli si perdona tutto, come a quel Grande figlio di pu***na cantato dagli Stadio.
Gentili Signore e Signori, dal Pamir è tutto, e che (ehm..) la pax sia voi (ah ah!).