Lezione di economia domestica GdT [finita male]

Elijah

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Elijah Six
vero è che sempre la stessa tiritera finisci per dire.
Oh sarà che a me quando leggo 3 volte la stessa cosa mi stufa…

Sono d'accordo, proverò a variare maggiormente in futuro. Come prima cosa ti propongo questa lettura. Parlavo di Kate Raworth, eccola in persona. 😜

***

«Compro dunque sono» dichiarava l’artista Barbara Kruger nel 1987.

Questa sua frase iconica sintetizza gli stili di vita pesantemente consumistici che, nel corso del XX secolo, hanno finito per dominare le esistenze in moltissime città e nazioni ad alto reddito, rovinando al contempo la salute del pianeta vivente.

Questo decennio cruciale in materia di azione per il clima impone un netto ribilanciamento dei consumi tra il Nord e il Sud globali, in modo da poter soddisfare i bisogni di tutti nei limiti dei mezzi di cui dispone il pianeta. La portata e la velocità richieste da tale ribilanciamento non hanno precedenti. Secondo Oxfam, se l’umanità intende vivere bene e in modo equo, mantenendo il riscaldamento globale entro gli 1,5 °C, il 10 per cento più ricco della popolazione mondiale dovrà ridurre entro il 2030 le proprie emissioni legate ai consumi ad appena un decimo dei livelli del 2015 e, nel mentre, far spazio al 50 per cento più povero degli abitanti del pianeta affinché riesca a soddisfare i propri fabbisogni essenziali.

Ma allora, in che modo le comunità e i paesi ricchi possono sfuggire agli stili di vita consumistici che li hanno fagocitati per oltre cent’anni? Partiamo dal capire come il consumismo sia inscritto nelle teorie fondamentali e nei modelli di business cruciali che hanno alimentato la crescita economica nel XX secolo.

I padri fondatori dell’economia hanno posto al centro delle loro teorie una caricatura del genere umano: individui solitari ed egocentrici con il desiderio insaziabile di tutto ciò che il denaro poteva comprare. Come spiegava nel 1890 Alfred Marshall, il maggior economista della sua epoca, «i bisogni e i desideri dell’uomo sono innumerevoli per quantità e di tipo assai vario. L’uomo non civilizzato in realtà non ne ha granché di più rispetto a una bestia bruta; ma a ogni passo che compie nel suo elevarsi aumenta la varietà dei suoi bisogni … egli desidera una maggior scelta di cose, e cose che soddisfino nuovi bisogni che nascono in lui». Con un ritratto tanto meschino dell’umanità come base di partenza, non c’è da stupirsi che il PIL – che misura il costo totale dei prodotti e dei servizi venduti in un anno in un’economia – sia stato così prontamente visto come un metro sensato del successo di una nazione.

Sebbene la teoria economica avesse già immaginato le persone come consumatori insaziabili, la gente vera doveva ancora convincersene; di fatto, la redditività futura delle aziende più potenti del XX secolo dipendeva da quello. «La produzione di massa è redditizia solo a patto di poterne mantenere il ritmo» scriveva Edward Bernays nel suo classico Propaganda del 1928, in cui sosteneva che il business «non può permettersi di attendere che il pubblico chieda i suoi prodotti; deve mantenere un’influenza costante, attraverso la pubblicità e la propaganda … per assicurarsi la presenza di una domanda continua, l’unica che può rendere redditizi i suoi costosi impianti».

Dato affascinante, Bernays – che ha inventato il settore delle «pubbliche relazioni» – era il nipote di Sigmund Freud e aveva capito che le idee alla base della psicoterapia potevano essere trasformate in terapia del retail assai lucrativa se fosse riuscito a collegare i desideri più reconditi delle persone con gli ultimissimi prodotti in vendita. Negli anni Venti convinse le donne (per conto dell’American Tobacco Corporation) che le sigarette erano «fiaccole di libertà», e allo stesso tempo persuase la nazione (per conto del dipartimento responsabile dei prodotti a base di carne di maiale della Beech-Nut Packing Company) che uova e pancetta rappresentavano la «sana» colazione tipicamente americana. Di certo conosceva bene il potere di tale pubblicità. «Noi siamo governati, le nostre menti vengono plasmate, i nostri gusti vengono formati, le nostre idee ci vengono suggerite, perlopiù da uomini di cui non abbiamo mai nemmeno sentito parlare» scriveva. «Sono loro a tirare i fili che controllano la mente del pubblico.»

L’industria pubblicitaria crebbe rapidamente e ben presto inglobò il consumismo come stile di vita cui aspirare. Come scriveva il teorico dei media John Berger nel suo libro del 1972, Questione di sguardi, «la pubblicità non si limita a essere un insieme di messaggi in concorrenza tra loro: è un linguaggio in sé, impiegato ogni volta per rivolgere a tutti la stessa identica proposta. … Propone a ciascuno di noi di trasformarsi, o di trasformare la propria vita, comprando qualcosa in più».

Se c’è un’industria che incarna il tentativo febbrile di trasformare noi stessi comprando di più, è quella della moda. Negli ultimi decenni si sono visti importanti marchi moltiplicare il numero delle collezioni annuali portandole da quattro a dodici o persino cinquantadue «microstagioni», con la promessa di un «nuovo te» per ogni settimana dell’anno. Questo ciclo sempre più veloce di indumenti a buon mercato si rispecchia nelle abitudini dei consumatori: tra il 2000 e il 2014 il consumatore medio ha acquistato il 60 per cento di vestiti in più ma ha conservato ogni articolo per appena la metà del tempo.

Il modello di business che sta dietro il fast fashion si basa sullo sfruttamento sia delle persone sia del pianeta. Pressate a consegnare ingenti ordini di abiti a basso costo con scadenze serratissime, le fabbriche di tutto il mondo spingono gli operai tessili a fitte tabelle di marcia caratterizzate da lunghi turni e bassi salari, contratti precari e il divieto di organizzarsi come forza lavoro. A questo si aggiunga l’impatto deleterio dell’uso che il settore fa di materiali, acqua, agenti chimici ed energia. Di tutte le fibre tessili attualmente prodotte, il 12 per cento viene scartato o si perde nel corso del processo produttivo, il 73 per cento dopo l’utilizzo finisce nelle discariche o negli inceneritori, e meno dell’1 per cento viene riutilizzato o riciclato per ricavarne nuovi capi d’abbigliamento. Per di più, l’industria della moda globale produce all’incirca il 2 per cento del totale delle emissioni di gas serra: entro il 2030 andrebbero pressoché dimezzate, ma al momento continuano a crescere. La moda sta palesemente logorando il pianeta.

Guarire dal consumismo

In che modo le società possono sfuggire alle dinamiche di sfruttamento del consumismo, nella moda e non solo? Possiamo sostituire alla caricatura di Marshall la consapevolezza che a motivarci è ben altro che il desiderio di avere più cose? Possiamo riprenderci da cent’anni di propaganda consumistica innescata da Bernays e trovare un nuovo fondamento alle relazioni che intratteniamo gli uni con gli altri, con gli oggetti di cui abbiamo bisogno e che usiamo, e con il resto del mondo vivente?

Se vogliamo guarire dal consumismo – e alla velocità richiesta –, diamo un’occhiata a ciò che si è appreso finora sui modi più efficaci per ridurre rapidamente gli stili di vita ad alto tenore consumistico delle nazioni con reddito elevato. Un’importante nuova analisi di ciò che servirebbe per raggiungere «stili di vita da 1,5 °C» indaga settori chiave tra cui il cibo, le abitazioni, il trasporto personale, i prodotti di consumo, il tempo libero e i servizi. Per ridurre gli impatti ecologici nella misura che ci viene richiesta, l’analisi raccomanda un intervento ambizioso da parte del governo allo scopo di dettare un cambiamento sistemico, che coinvolga una «revisione delle scelte» e la fornitura di servizi di base universali.

I legislatori possono fare ben di più con la regolamentazione, le tasse e gli incentivi a «eliminare» opzioni di consumo deleterie non compatibili con stili di vita da 1,5 °C.

[…]

A chiunque abbia la curiosità di provare a adottare uno stile di vita da 1,5 °C, il movimento civico Take The Jump propone sei principi per riuscirci:

  • Smetti di accumulare: tieni i prodotti di elettronica per almeno sette anni.
  • Fai le vacanze in loco: prendi aerei a corto raggio solo una volta ogni tre anni.
  • Mangia green: adotta un’alimentazione a base di verdure e non fare sprechi.
  • Vestiti rétro: compra al massimo tre capi d’abbigliamento nuovi ogni anno.
  • Viaggia pulito: non usare auto private, se possibile.
  • Cambia il sistema: agisci in modo da smuovere e spostare il sistema generale.
Fonte: Kate Raworth (2022), art. “Verso stili di vita da 1,5 °C”, in: “The Climate Book”



***

Il mondo dei giochi da tavolo purtroppo non è un mondo a sé, isolato, che non c’entra assolutamente nulla con il resto della società. La verità è che il mercato dei giochi da tavolo segue esattamente le stesse dinamiche "deleterie" che ci sono nel mercato in generale. E dato che certe problematicità sono a mio avviso gravi e coinvolgono tutti, reputo giusto e doveroso ricordarle, ogni volta che se ne presenta l’occasione.

Poi, nessuno ha mai amato gli “attivisti”. Da Gesù a Gandhi, da Martin Luther King ad Annalena Tonelli, da Greta Thunberg a Katharine Hayhoe, da Gary Stevenson a Robert Reich, da Noam Chomsky a Joseph Stiglitz, da Chris MacAskill a Marion Nestle, da Chris Van Tulleken a Marcia Angell, ecc. ecc. Quindi capisco la frustrazione (sia degli attivisti stessi [perché cambiare le cose a livello sistemico è una missione pressoché impossibile] che delle persone che devono sentirsi continuamente gli stessi discorsi e ricordarsi quanto la situazione è problematica e grave). Trattare e affrontare queste tematiche crea disagio emotivo anche a me. Ho l'obbligo professionale di restare ottimista e positivo, ma non ti nego il fatto che capisco i doomer, chi ha mollato e basta.

La cosa buffa è che un tempo certi personaggi scomodi venivano fatti fuori in senso letterale e basta (problema risolto), al giorno d’oggi vengono presi d’assalto sui (social) media da fabbriche dell’odio in modo mirato e intenzionale. Da chi? Da chi ha il potere, i soldi e vuole continuare a fare il suo business as usual. La lotta sotto certi aspetti è diventata ancora più aspra e logorante.

Detto questo, buona continuazione e buon gioco (possibilmente equo e sostenibile 😅).
 
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mistake89

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A me questo sembra l’ennesimo topic di bulimia ludica.

Non fingiamo che essendoci la parola economia domestica, si volesse parlare dei massimi sistemi finanziari.

Beh, la bulimia ludica è, giocoforza, una delle tante espressioni del consumismo.
Cedere continuamente alle offerte proposte, comprare più quello che si riesce a giocare, aver finito lo spazio con giochi mai ancora giocati è esattamente ciò che definisce uno stile di vita consumistico.

E lo dico senza alcun giudizio personale, ovviamente.

La bulimia ludica è, al pari di tanti altri comportamenti, un modo malsano di cedere a tecniche di comunicazione e marketing atte a renderci prima consumatori e poi cittadini.
E spostare il punto di vista su questi aspetti è salutare, secondo me, in un luogo nato per discutere.

Dopodiché ognuno è libero di leggere o disinteressarsi, ma senza screditare il punto di vista con un generico "che palle!" (Riassumo e non cito testualmente).
Altrimenti sai su quanti topic di KS, scimmie, Bonobi etc etc bisognerebbe scrivere "che palle!"?

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lushipur

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Guarda, personalmente vengo per “spegnere il cervello”.
Scimmie e bonobi aiutano a farlo.
Jung no.
Va benissimo parlarne ma agganciarsi ogni volta per ripetere a nastro lo stesso concetto, anche no.
Posso skippare? Ovviamente.
Sono uno a cui piace leggere, preferisco le recensioni scritte ai video, ma appena vedo i suoi muri di testo, mi fa male l’indice 😂
 

Lorenzo7

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Raga, dai, non l'avete ancora capito? Lushipur è un troll. E' solo un semplice net troll, non cagatelo.

In ogni topic dice sempre la stessa cosa, l'ha fatto anche con me: i suoi post sono tutti identici fotocopiati, in ogni topic in cui interviene dice che non bisogna parlare di cose serie, ma solo spegnere il cervello, come se il mondo dovesse scrivere solo quello che dice lui.

E' solo il più classico dei net troll: non cagatelo e scrivete quello che volete
 
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