Meaningful Play: il gioco significativo

kabbala: albero delle sephiroth

Era da un po' che volevo chiedere a Marco Valtriani di scrivere un articolo sul gioco significativo, su cosa si intenda con l'espressione e sul perché sia importante. Ed eccolo qui.
Agzaroth

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Cos'è l'esperienza di gioco significativa?

Per far sputare un caffé a un game designer è sufficiente buttare lì una richiesta apparentemente innocente, tipo "so che sei impegnato, ma mi scriveresti un articolo sul meaningful play?"

Questo perché il concetto di "meaningful play", o ancor meglio "meaningful play experience" ("esperienza di gioco significativa") è uno dei concetti portanti di "Rules of Play - Game Design Fundamentals" di Katie Salen e Eric Zimmerman. Che, a sua volta, è uno dei testi fondamentali sul game design, una di quelle opere che ogni aspirante progettista di giochi dovrebbe aver letto almeno una volta o, quantomeno, la cui lettura dovrebbe aver messo in cima alla lista di cose da fare.
Rules of Play, infatti, è un libro del 2004 che ha di fatto formalizzato una serie di concetti oggetto di studio negli anni precedenti e che ha contribuito alla genesi di numerose teorie e correnti di pensiero sulla progettazione di giochi (che spesso superano in qualche aspetto quelle del "genitore", pur rimanendogli immensamente debitrici). Non è un testo "facile" e provare a estrapolare singoli concetti senza aver chiaro il quadro generale è abbastanza arduo, per cui mi perdonerete se prima di arrivare al dunque faccio un piccolo preambolo.
Rules of Play

Come sa chi sta leggendo la mia Guida pratica per aspiranti game designer, oggi è abbastanza comune trovare autori di giochi che progettano avendo come focus l'esperienza del giocatore. In breve, anziché partire dal sistema di gioco "in quanto tale", si parte dall'idea di esperienza che si ha in mente e da quella si inizia a lavorare al resto: al mondo di gioco, al ruolo dei giocatori e, ovviamente, alle azioni che questi andranno a compiere per ottenere determinati obiettivi. Anziché guardare solo al funzionamento "meccanico" del gioco, insomma, si guarda molto anche alle dinamiche che si innescano e alle conseguenti sensazioni, emozioni e reazioni dei giocatori. In questo senso, il Framework DPE di Brian Winn è ad oggi un buon punto di partenza per chi volesse utilizzare questo tipo di approccio...

Ebbene, tutte queste teorie affondano in buona misura le proprie radici in Rules of Play. Il libro è diviso in quattro macro-capitoli. Il primo elenca e definisce i concetti fondamentali, mentre gli altri tre analizzano il gioco da diversi punti di vista. Il capitolo "Rules" parla dell'organizzazione del sistema di gioco: per Salen e Zimmermann il gioco (game) è un "sistema"; più precisamente, è "un sistema in cui i giocatori s'impegnano in un conflitto artificiale, definito dalle regole, che ha come risultato un esito quantificabile"; ovviamente questa non è l'unica o la più completa definizione di "game", ma rimane una delle migliori e, in questo caso, è meglio non divagare troppo e tenere questa per buona. La seconda parte, "Play", parla dell'interazione fra uomo e sistema di gioco, ossia dell'atto del giocare (per l'appunto "play") definito come "libertà d'azione all'interno di una struttura rigida": le regole definiscono questa struttura, il sistema, al cui interno i giocatori possono compiere azioni liberamente (entro le restrizioni imposte dal sistema stesso). Non ci occuperemo del terzo capitolo, "Culture", ma per completezza sappiate che descrive l'interazione fra il sistema, l'atto del giocare e la società che ci circonda. 

Questa suddivisione è fondamentale per capire i diversi approcci allo studio del gioco: il gioco infatti può essere inteso come sistema (se guardato dal lato del progettista), come esperienza (se osservato dal lato del giocatore) e come fenomeno culturale (dal punto di vista della società). La parte fondamentale che ci interessa ora, però, è la differenziazione fra gioco inteso come artefatto (game) e gioco inteso come attività (play). Il designer progetta il gioco (game), che tramite il giocare (play) messo in atto dai giocatori fa vivere loro un'esperienza (experience). 
Game Design: gioco e giocare tra teoria e progetto

Nel parlare del gioco come sistema, Salen e Zimmermann citano un altro concetto molto importante, quello di "cerchio magico". Riprendendo le teorie di Johan Huizinga, gli autori del libro ci spiegano che "giocare un gioco significa entrare in un cerchio magico": quando si gioca si varca un confine immaginario e si entra in uno spazio astratto. Il confine divide ciò che è "gioco" dal mondo al di fuori del gioco stesso. 
Fuori dal cerchio magico sono Marco Valtriani, un game designer e un giocatore che va per la quarantina, ma dentro il cerchio magico sono Wolfhawk, una giovane maga guerriera versatile e piena di risorse. Fuori dal cerchio magico sono Marco Valtriani, ma dentro il cerchio magico sono anche Izraphael, Cacciatore di Demoni di 70 livello di Sanctuarium. Fuori dal cerchio magico un cubetto di legno è solo un cubetto di legno, ma dentro può essere un blocco di pietra utile per costruire, un solerte lavoratore o del cibo per la mia tribù. E che dire della palla con cui si gioca a calcio? È un'inutile sfera di cuoio per quasi tutto il tempo: ma dentro al cerchio magico, per novanta minuti, catalizza l'attenzione di tutti, diventando un oggetto speciale che, se infilato in una porta, avvicina una delle squadre alla vittoria.

Adesso uniamo le due cose: quando giochiamo (ed entriamo nel "cerchio magico") di fatto entriamo volontariamente in un "micro-mondo" fittizio con le sue regole e i suoi scopi (il gioco\game progettato dal designer): in questo ambiente chiuso, in cui non valgono le regole del mondo reale, ma altre regole, giochiamo (play) compiendo azioni e facendo scelte che si basano sulle regole del mondo di gioco, non su quelle del mondo reale. È un po' come quando saliamo sulle montagne russe ci emozioniamo grazie a una sorta di "paura controllata": da un lato non riusciamo a impedire completamente al nostro corpo di reagire agli stimoli esterni, dall'altro sappiamo di essere al sicuro grazie ai sistemi di sicurezza della giostra; allo stesso modo, quando giochiamo ci mettiamo in situazioni immaginarie in cui superiamo sfide, combattiamo battaglie o risolviamo conflitti che non avranno effetti sulla nostra vita reale, rimanendo confinati all'interno del "cerchio magico", nel mondo di gioco. A meno che non stiate giocando a Vudù, ovviamente: in quel caso le contratture potrebbero permanere anche dopo la fine della partita.
The Art of Game Design

Scherzi a parte, la "meaningful play experience" viene definita partendo da questi concetti.
Salen e Zimmermann lo dicono senza tanti giri di parole: l'obiettivo della progettazione di giochi dovrebbe essere la creazione di un'esperienza di gioco significativa. Il "meaningful play" in un gioco emerge dalla relazione fra le azioni del giocatore e il risultato fornito dal sistema: quanto più l'esito dell'azione è significativo ai fini dell'esperienza, tanto più il gioco tenderà ad essere appagante, coinvolgente, piacevole. Più nel dettaglio, il "meaningful play" è quel che succede quando le relazioni fra azioni del giocatore e risposte del sistema sono, all'interno del contesto costituito dall'intero gioco, sia riconoscibili che integrate nel sistema stesso. Il fatto che siano "riconoscibili" significa che il giocatore che compie l'azione dev'essere conscio dell'azione che sta compiendo e deve percepire le conseguenze dell'azione stessa; "integrate", invece, significa che l'azione di un giocatore non dovrebbe avere importanza solo in quel momento esatto, ma dovrebbe influenzare l'esperienza di gioco anche in seguito nel corso della partita. Se un'azione non avrà ripercussioni né conseguenze, o peggio se ne avesse di controproducenti rispetto all'idea di gioco, quell'azione, quel gameplay, non è "meaningful", non è significativo. 

Facciamo un esempio. Quando compiamo un'azione in Puerto Rico, questa probabilmente avrà importanza a più livelli: genererà risorse per noi e per gli altri, ci consentirà di ottenere vantaggi immediati e a lungo termine o di ostacolare il gioco altrui, e coinvolgerà sia la nostra capacità di analisi dello stile e delle scelte tattiche degli avversari che quella di pianificare a nostra volta una strategia di successo. Questo fa sì che, mentre giochiamo, siamo coinvolti e appagati: ponderiamo le nostre mosse, facciamo calcoli, cerchiamo di prevedere le mosse altrui, siamo soddisfatti nel vedere come cresce la nostra isola.

Quando giochiamo a Trivial Pursuit, invece, cosa succede? Mi perdoneranno i fan del gioco da tavolo a quiz più famoso del mondo, ma per quanto mi riguarda è difficile definire "esperienza di gioco significativa" quella che si vive durante un match a Trivial Pursuit. 
La nostra azione consiste nel tirare un dado e muovere la pedina, ma per com'è fatta la plancia seglieremo sempre di raggiungere una casella finale di categoria, un "tira di nuovo" o al limite una casella di una categoria in cui ci sentiamo ferrati: le scelte che facciamo sono, di volta in volta, o obbligate o scontate. La conseguenza di ogni nostra scelta, infatti, è dover rispondere a una domanda che può essere tanto un vecchio indovinello sul colore del cavallo bianco di Napoleone quanto la richiesta di indicare il numero esatto di litri di sangue che un cuore umano a riposo pompa mediamente in un'ora (trecentoquarantatré, per chi se lo stesse chiedendo davvero). Il premio per una risposta corretta dipende dalla casella: se siamo su una casella finale vinciamo un punto-spicchio, praticamente un settimo di vittoria, altrimenti otteniamo la possibilità di tirare di nuovo e di rispondere a un'altra domanda a caso, praticamente un settimo di niente.

È chiaro che nel primo caso compiamo azioni significative, che generano appagamento e che contribuiscono all'esperienza di gioco nella sua totalità, perché riconoscibili e integrate: ogni azione ha delle conseguenze a breve e lungo termine che posso comunque vedere e analizzare; nel secondo caso compiamo ogni azione senza poter prevedere miminamente le sue conseguenze, anzi spesso ottenendo risultati non commisurati alla sfida affrontata, tanto che a volte sembra quasi che sia il gioco a giocare, e non noi.
Game Design Workshop

Attenzione, non è colpa "del lancio di dado" in sé o di quali tecniche\pratiche sono state scelte per gestire le azioni in Trivial Pursuit, è proprio una questione di approccio al design: il problema di Trivial Pursuit è che il "cuore" del gioco è "rispondere a X domande su X argomenti più velocemente possibile", mentre le azioni a disposizione dei giocatori sembrano, se non remare nella direzione opposta, essere quantomeno slegate dal resto. Anziché utilizzare un sistema che consenta al giocatore di "dirigersi" verso gli obiettivi o che fornisca risposte coerenti rispetto allo scopo del gioco, il sistema di movimento tende a portare il giocatore verso ostacoli casuali e poco remunerativi in termini di gioco, lasciando pochissimo controllo al giocatore stesso, valorizzandone eventuali abilità o conoscenze in modo del tutto randomico e generando potenzialmente una grossa quantità di frustrazione.

Puerto Rico, pur essendo un gioco non nuovissimo, ha invece dalla sua un invidiabile coerenza a livello di meccaniche: può non piacere per molti motivi, ma che il sistema di gioco sia al tempo stesso tanto originale quanto appagante per gli amanti del genere è cosa più che nota.

Il discorso ovviamente è difficile da affrontare se non si hanno un minimo di competenze (sia teoriche che pratiche) e un breve articolo come questo non sarà mai esaustivo: dopo tutto Salen e Zimmermann hanno scritto oltre 600 pagine sull'argomento, e riassumere il concetto principale del volume in poche righe è un'impresa superiore alle mie forze. Se l'argomento vi interessa, mi permetto di consigliare nuovamente a tutti di leggere la mia guida (è gratis, è semplice e contiene un sacco di gif animate buffe), in modo da familiarizzare con i concetti base della teoria per poi passare subito alla pratica, e soprattutto vi consiglio caldamente di cercare e studiare un po' di testi (accademici e non). In italiano consiglio "Game Design, gioco e giocare fra teoria e progetto" di Maresa Bertolo e Ilaria Mariani, e il recentissimo "L’autore di giochi" di Emiliano Sciarra, mentre in inglese i miei testi preferiti rimangono, oltre al già citato Rules of Play, "The Art of Game Design: A Book of Lenses" di Jesse Schell e "Game Design Workshop: A Playcentric Approach to Creating Innovative Games" di Tracy Fullerton.

Commenti

molto interessanti e con molti rimandi per approfondire, ringrazio ancora Marco Valtriani per averlo scritto.

Grazie, molto interessante.

non mi è ben chiaro cosa si intende per REGOLE DEL MONDO REALE e REGOLE DEL GIOCO.

infatti una regola, di per sè, e cioè in quanto regola, è una entità ideale, a prescindere dal proprio oggetto.

la regola per cui le case vanno costruite con le fondamenta, è entità ideale, anche se riguarda un qualcosa di materiale (la casa).

cosi come ideale è la regola per cui in un gioco x non puoi fare o puoi fare una cosa.

per cui, cosa vuol dire regola del mondo reale? è solo quella che concerne entità materiali? ma in questo caso, il gioco non è caratterizzato anche da una propria materialità? 

amen

 

Probabilmente il concetto di "cerchio magico" (teorizzato da Huizinga e ripreso da molti studiosi successivi) avrebbe meritato qualche riga in più :)

Provo a rispiegarlo velocemente: le attività ludiche si svolgono "mondi temporanei", delimitati nel tempo e nello spazio, al cui interno i comportamenti, gli obiettivi e le aspettative dei partecipanti assumono altri significati rispetto a quelli della vita quotidiana. Ossia: le regole del "mondo reale" vengono temporaneamente sostituite da quelle del "mondo di gioco", ovviamente limitatamente all'attività ludica, in modo simile alla sospensione dell'incredulità o all'immedesimazione nell'improvvisazione teatrale.

Per riprendere uno degli esempi dell'articolo, una palla di cuoio calciata in una rete non ha nessun senso né importanza nella vita quotidiana, è un'azione inutile e probabilmente usare le mani sarebbe stato più comodo, sempre che ci sia un motivo per infilare una sfera di pelle in una rete. In una partita di calcio, invece, quella palla catalizzerà l'attenzione e le energie di tutti i giocatori e verrà seguita con apprensione dai tifosi.
Eppure è sempre la stessa, inutile palla di cuoio: perché in quel contesto diventa così importante?

Perché il calcio è un gioco, e le squadre che lo giocano sono all'interno del "cerchio magico": un ambiente delimitato nel tempo e nello spazio, in cui vigono regole diverse da quelle della vita quotidiana (la palla non si tocca con le mani, si fa punto infilandola in rete, si commette fallo intervenendo su un avversario e non sulla palla etc etc). Anche il pubblico lo sa e riesce per questo a immedesimarsi e tifare. Se non conoscessero le regole vedrebbero solo ventidue uomini in mutande che corrono dietro a una palla piena d'aria cercando di infilarla fra due pali per novanta minuti, pensando probabilmente che sono pazzi o che, comunque, hanno un sacco di tempo ed energie da buttare.

Allo stesso modo, durante una partita a un gioco da tavolo, per la durata della partita il mondo "reale" (in cui viviamo la nostra quotidianità) è sostituito dal mondo "di gioco": prendiamo decisioni, ci emozioniamo e viviamo esperienze seguendo le regole che governano quel mondo fittizio, anche se funzionano in modo diverso dalla quotidianità e senza che questo abbia conseguenze nel mondo "reale" (altrimenti tutte le partite a Bang! ci costerebbero svariati anni di galera per omicidio plurimo).

 

non mi è ben chiaro cosa si intende per REGOLE DEL MONDO REALE e REGOLE DEL GIOCO.

infatti una regola, di per sè, e cioè in quanto regola, è una entità ideale, a prescindere dal proprio oggetto.

la regola per cui le case vanno costruite con le fondamenta, è entità ideale, anche se riguarda un qualcosa di materiale (la casa).

cosi come ideale è la regola per cui in un gioco x non puoi fare o puoi fare una cosa.

per cui, cosa vuol dire regola del mondo reale? è solo quella che concerne entità materiali? ma in questo caso, il gioco non è caratterizzato anche da una propria materialità? 

amen

Da coma l'ho presa io va inteso che "giocare" vuol dire condividere e accettare il senso di un set di regole diverse da quello del mondo reale. Regole del mondo reale, che siano artifizi ideali o mutuate dall'esperienza, sono che se tradisci un amico ti garantisci la riprovazione sociale, o che se esegui determinate procedure standardizzate la realtà muta secondo una precisa direzione. Quando giochi accetti e condividi, fintanto che si è nel cerchio magico, che regole del mondo reale condivise possano essere tradite. Il giocatore (sano, aggiungo io) accetta regole che, invece, nel mondo reale possono risultare svantaggiose, non vere, senza senso o riprovevoli e confina ogni evento accaduto nel cerchio magico come accaduto nel cerchio magico.  

Ad esempio il fatto che io menta ad un altro giocatore durante una partita a the resistance è un comportamento accettato socialmente fintanto che questo è confinato nell'atto del gioco. Il mentire fuori dall'atto del gioco invece è discutibile e porta a conseguenze diverse se perpetrato nel mondo reale. 

Articolo interessante, parallelamente al "Homo Ludens" andrebbero citate anche le Macy Conferences sul gioco trascritte nella raccolta di saggi "Verso un ecologia della mente" di Willam Bateson. Che contiene tra l'altro anche ulteriori scritti interessanti sulla definizione di contesto e cornice

vi ringrazio per le risposte. comunque credo, a costo di dire una banalità, che in realtà non tutte le regole del mondo c.d reale vengano messe da parte.

infatti, se la mia fidanzata mi ruba la tessera che mi mancava per finire all’ultimo giro la regione verde chiaro da 5 (castelli borgogna), non le tiro un ceffone, anche se se lo meriterebbe (ahahahahah).

per cui direi che quando si gioca si adottano delle regole che vanno ad affiancarsi a quelle del mondo c.d reale.

poi ci sarebbe forse da riflettere un po’ anche sul perché non considerare come “reale” una partita (a burgundy, a calcio, ecc): infatti secondo me l’aggettivo REALE è stato usato impropriamente.

probabilmente si andrebbe a finire sulla distinzione tra extrasensoriale e materiale, ma allora tutte le regole sono extrasensoriali (il testo scritto, percepibile dai sensi, è materiale, mentre la regola di condotta -che è quello che per noi rileva nel nostro discorso- è immateriale).

 

Niconiglio, mi dai l'impressione che sei il tipo di persona che ha difficoltà ha tenere separati il gioco dal resto della vita che non fa parte del gioco. Anche il fatto che dici che la tua ragazza si meriterebbe un ceffone se ti ostacola nel raggiungimento di un obiettivo di gioco, fa capire come la tua attitudine sia assai poco sportiva. A me viene da tirare un ceffone solo se vedo che qualcuno bara (cioè se non rispetta le regole del gioco), non se mi ostacola compiendo un'azione lecita, consentita dal regolamento. Quello fa parte della competizione.

Se poi non si accetta che la competizione deve svolgersi secondo certe regole, allora si è anti-sportivi, non si sta più giocando, ma solo cercando di affermare il proprio ego. E se questo ego viene ferito nell'orgoglio (mancato raggiungimento dell'obiettivo), allora sale l'impulso a vendicare l'onta subita con una ritorsione studiata, che potrebbe avvenire (nel caso di individui particolarmente disturbati) anche nel mondo reale, al di fuori del così detto cerchio magico.

Eppure l'articolo è chiaro quando dice: "Nel mondo reale sono Marco Valtriani, ma dentro il cerchio magico sono Wolfhawk, una giovane maga guerriera...".

Più chiaro di così...

Inoltre una regola non è una mera "entità ideale": il teorema di Pitagora è un fatto, non un idea. Puoi cambiare idea e cambiare le regole di un gioco, non puoi cambiare il fatto che il monossido di carbonio è un gas invisibile che può causare la morte. In un gioco potresti ripetere la stessa missione, dopo morto, fin quando non riesci a risolverla; non così nel mondo reale. In un gioco posso uccidere qualcuno per ottenere punti; nella realtà, se uccido qualcuno, rischio seriamente di compromettere tutta la mia vita. Queste sono regole del mondo reale.
La differenza tra finzione e realtà, tra gioco e mondo concreto, dovrebbe essere immediatamente alla portata di tutti.

caro amico, evidentemente invece a qualcuno sfugge - tra le varie cose - il concetto di ironia, dal momento che mi pare evidente che la mia fosse un’iperbole (anche perché rischierei di prendermele!)

sul fatto poi che il teorema di pitagora sia un fatto, ciò esclude che lo stesso sia una regola, se intesa in senso proprio: la regola se la danno dei gruppi per regolare i propri comportamenti nell’ambito di certe situazioni, il teorema di pitagora mi pare invece di capire che descriva un fatto (tant è che non si chiama REGOLA di pitagora..)

un fatto non è una regola, anzi la regola presuppone proprio un fatto per essere applicata (es: la regola che punisce l’omicidio presuppone, per la sua applicazione, che qualcuno, materialemente, abbia ucciso un’altra persona, magari la propria fidanzata perché gli ha rubato la tessera verde con 4 maiali - spero però, visto l’esempio, che tu non mi consideri, oltre che incapace di distinguere la realtà dalla fantasia, anche un assassino...)

poi, se devo continuare, mi pare del tutto evidente che una persona che sta giocando a burgundy, ci sta giocando, quindi prende parte al gioco, a prescindere dal fatto che sia o meno antisportiva.

infine, ti chiederei gentilmente di dimostrare che una regola, intesa in senso proprio, non è un’entità ideale: per carità, magari mi sbaglio io a pensare il contrario..

 

 

Articolo interessante, parallelamente al "Homo Ludens" andrebbero citate anche le Macy Conferences sul gioco trascritte nella raccolta di saggi "Verso un ecologia della mente" di Willam Bateson. Che contiene tra l'altro anche ulteriori scritti interessanti sulla definizione di contesto e cornice

 

Wow, bella citazione! :)
Ci sarebbe, in effetti, un sacco di roba da citare... incluse, ovviamente, le conferenze trascritte nel libro di Bateson, che per quanto più afferenti all'antropologia che al game design in senso stretto contengono molte riflessioni interessanti e punti di vista decisamente stimolanti.

Diciamo che, rimanendo nel campo della progettazione di giochi, ho valutato che i libri proposti negli approfondimenti fossero un buon punto di partenza. Schell non insiste molto sul "cerchio magico", ma sia la Fullerton (nel capitolo 2 di Game Design Workshop: A Playcentric Approach to Creating Innovative Games) che, soprattutto, Salen e Zimmermann nella Unit 1, Chapter 9 di Rules of Play, che s'intitola proprio "The Magic Circle" (e che ha costituito la base per questo articolo, probabilmente più degli scritti di Huizinga) definiscono il concetto in modo molto chiaro.

Ci sono però davvero molti articoli e testi sull'argomento, per cui ti ringrazio della segnalazione e anzi invito chi volesse a contribuire con articoli, titoli di libri e paper accademici sull'argomento.

Penso che siano stati tirati in ballo un paio di argomenti interessanti, bravi :)

Prima di tutto: le parole "reale" e "regola". Essendo un testo divulgativo, ho usato "regola" nel senso più comune possibile, di "norma stabilita per convenzione" e ho applicato lo stesso principio per "reale", che quindi è da intendersi com "che è, che esiste veramente, effettivamente e concretamente" in contrapposizione al concetto di "mondo di gioco", che è un "luogo artificiale" in cui vigono regole diverse (rispetto, appunto al "mondo reale"). Nel mondo di gioco ci sono storie e situazioni diverse dalla realtà, oggetti e interazioni hanno effetti diversi da quelli quotidiani, e così via: si tratta di un mondo immaginario condiviso limitato nel tempo e nello spazio. Qualcuno preferisce l'espressione "mondo ordinario" a "mondo reale", ma ho notato che negli articoli divulgativi questo termine tende ad essere male interpretato, perché sposta l'asse da "reale\immaginario" a "comune\straordinario".

Credo che una volta che si è definito il contesto (quindi quando siamo tutti d'accordo che si parla di game design e non, per esempio, di ontologia o gnoseologia) sia abbastanza chiaro che il fulcro del discorso è che quando si gioca si entra volontariamente e di comune accordo con gli altri giocatori in un "mondo fittizio", limitato nel tempo e nello spazio, che segue regole diverse da quelle del mondo reale, permettendoci di vivere esperienze diverse da quelle del mondo reale, in maniera analoga a quello che succede quando sospendiamo l'incredulità guardando un film, ma in modo partecipe ed interattivo. Vale tanto per una run in multiplayer su Diablo III, che per una sessione di softair, che per una partita a Power Grid.

C'è di più? Certo, l'ho scritto chiaramente: questo articolo è una semplificazione estrema di concetti contenuti in più libri, ed è solo la punta dell'iceberg di teorie e prassi che da questi concetti prendono il via. Da sola, l'unità "rules" di Rules of Play conta 150 pagine e io non sono un x-men: non c'ho neanche provato, a riassumere tutto.

Credo sia abbastanza naturale, però, che qualcuno sia curioso: nei commenti state chiaramente andando più in profondità, per esempio state già parlando di emozioni che tracimano fuori dal Cerchio Magico, che è un argomento ancora più complesso. Ora, è chiaro che se una persona che è oggetto di un attacco "nel mondo di gioco" prende la cosa sul personale (come se l'attacco fosse stato fatto contro di lei e non contro il proprio avatar in game) e magari continua a covare rancore anche a gioco finito, qualcosa è "uscito" dal cerchio magico, così come se il mio modo di giocare è aggressivo e nervoso perché ho avuto una giornataccia, sto facendo "entrare" qualcosa di reale nel cerchio magico. Sono cose che in realtà sono assolutamente normali, e ovviamente sono ampiamente conosciute e discusse, e se parliamo di Game Studies ci sono molte critiche al "Cerchio Magico" (anche estremamente solide, dal loro punto di vista) e dibattiti estremamente interessanti sull'argomento.

Contestualmente all'argomento "progettazione", però,  il concetto importante da capire è che un gioco produce un'esperienza attraverso l'atto del giocare, facendo entrare i giocatori in un "mondo di gioco" alternativo con regole tutte sue. Certo, ci sono sfumature, ma questo concetto mette le basi per i passi successivi: sapendo come funziona in linea di massima il cerchio magico, il designer deve sapere che il suo controllo si limita alla progettazione di regole, materiali e tema, non può obbligare nessuno a livello dinamico né tantomeno forzare qualcuno a provare un'emozione, può solo cercare di usare gli strumenti che ha per far sì che l'esperienza vissuta dai giocatori sia più simile possibile a quella che ha in testa lui.

Secondo l'approccio giocatore-centrico, insomma, il designer dovrebbe lavorare progettando il "mondo di gioco" (con le sue storie, le sue regole, le sue interazioni), in modo da rendere significativa l'esperienza che nasce dal giocare, cioè dovrebbe cercare di fare in modo che quel che accade nel cerchio magico sia appagante (rispetto al target e all'esperienza desiderata) e coerente (rispetto al mondo di gioco stesso).

Lo dico di nuovo: sto ovviamente semplificando moltissimo. Come ho detto nell'articolo è impossibile riassumere in poche righe concetti complessi e che hanno generato correnti e linee di pensiero diverse: già solo sui framework che mirano a descrivere i vari concetti che riguardano la progettazione in sé, le dinamiche di gioco e le esperienze risultanti ci sarebbe da scrivere un libro intero, per non parlare delle analisi delle tipologie di giocatori, dei kind of fun o di tutti gli approfondimenti (molti dei quali riassunti in alcuni articoli anche qui sulla tana) sulle varie applicazioni tecniche e pratiche dei concetti teorici.

 

caro amico, evidentemente invece a qualcuno sfugge - tra le varie cose - il concetto di ironia, dal momento che mi pare evidente che la mia fosse un’iperbole (anche perché rischierei di prendermele!)

sul fatto poi che il teorema di pitagora sia un fatto, ciò esclude che lo stesso sia una regola, se intesa in senso proprio: la regola se la danno dei gruppi per regolare i propri comportamenti nell’ambito di certe situazioni, il teorema di pitagora mi pare invece di capire che descriva un fatto (tant è che non si chiama REGOLA di pitagora..)

un fatto non è una regola, anzi la regola presuppone proprio un fatto per essere applicata (es: la regola che punisce l’omicidio presuppone, per la sua applicazione, che qualcuno, materialemente, abbia ucciso un’altra persona, magari la propria fidanzata perché gli ha rubato la tessera verde con 4 maiali - spero però, visto l’esempio, che tu non mi consideri, oltre che incapace di distinguere la realtà dalla fantasia, anche un assassino...)

poi, se devo continuare, mi pare del tutto evidente che una persona che sta giocando a burgundy, ci sta giocando, quindi prende parte al gioco, a prescindere dal fatto che sia o meno antisportiva.

infine, ti chiederei gentilmente di dimostrare che una regola, intesa in senso proprio, non è un’entità ideale: per carità, magari mi sbaglio io a pensare il contrario..

Caro amico (e lo dico senza ironia, io), l'uso che si fa dell'ironia dice anche qualcosa sulla persona che ne fa uso. Il punto che stavo evidenziando è che ad un giocatore non dovrebbe venire un'impulso di ostilità nei confronti di un altro giocatore se questi agisce secondo le regole di gioco. Se si compie un'azione lecita, non c'è motivo di prenderla sul personale (salvo casi molto particolari di cui ho discusso altrove e che potrebbero rientrare nelle categorie di Bash the Leader e King Making). Se si accetta di giocare ad un gioco competitivo, allora bisogna accettare tutto ciò che la competizione implica.

Stare poi a cavillare sui termini "teorema" e "regola", mi pare un po' un arrampicarsi sugli specchi. Molte leggi scientifiche, essendo dei fatti, vengono anche chiamati regole; un es. tra i tanti possibili: la regola di Markovnikov. Dunque non è vero che se qualcosa è un fatto, automaticamente non è una regola e viceversa. Si può intendere il termine "regola" come "norma comportamentale che degli individui si dànno per raggiungere una condizione accettabile di socialità", ma il termine può anche avere il significato di "modalità comportamentale di elementi della realtà oggettiva". La regola di Pascal che stabilisce che in un liquido la pressione si distribuisce equamente in ogni suo punto, è un fatto (non un'entità ideale) che non può essere modificato da un accordo interpersonale. Ci sono leggi prodotte dagli esseri umani e leggi naturali. Queste ultime sono fatti. Ma è un fatto anche che infrangere una legge degli esseri umani comporta delle conseguenze. Anche questo fa parte della realtà oggettiva.

Sull'antisportività, mi viene in mente l'esempio del calciatore che scende in campo (quindi prende parte al gioco) e falcia le caviglie di un'avversario quando questi lo supera con un dribbling. Viene giustamente sanzionato il suo comportamento antisportivo (o almeno dovrebbe esserlo) poiché, pur avendo preso parte al gioco, ha compiuto un'azione che esula da ciò che le regole di quel gioco permettono. Può anche essersi sentito ferito nell'orgoglio, per essere stato dribblato da un avversario, ma questo non giustifica la sua azione illecita. Dribblare un avversario fa parte della competizione sportiva di quel gioco; colpire le caviglie di un avversario no.

Vorrei, inoltre, farti notare che non ho mai pensato che tu fossi incapace di distinguere la realtà dalla fantasia, né tanto meno che tu fossi un potenziale omicida, ma forse avrei dovuto esprimermi con maggior chiarezza, su questo punto. Ho solo detto che mi davi l'impressione di un individuo che non sa tenere ben separato ciò che avviene dentro il "cerchio magico" da ciò che è all'esterno dello stesso. Probabilmente avrei dovuto specificare: "sul piano emotivo".

Ha ben detto Izraphael:

è chiaro che se una persona che è oggetto di un attacco "nel mondo di gioco" prende la cosa sul personale (come se l'attacco fosse stato fatto contro di lei e non contro il proprio avatar in game), e magari continua a covare rancore anche a gioco finito, qualcosa è "uscito" dal cerchio magico, così come se il mio modo di giocare è aggressivo e nervoso perché ho avuto una giornataccia, sto facendo "entrare" qualcosa di reale nel cerchio magico.
Sono meno d'accordo con lui quando afferma:
Sono cose che in realtà sono assolutamente normali
A mio avviso non sono affatto normali; sono indice che qualcosa non va nella sfera emotiva dell'individuo.

Ma l'articolo è veramente interessante, come pure i commenti e forse mi darò alla lettura di qualcuno dei libri su citati. Grazie Izraphael.
Volevo anche chiedere all'autore dell'articolo se si interessa di quel ramo della cultura ebraica che va sotto il nome di Kabbalah, vista la scelta dell'immagine iniziale.

quindi avrei dei seri problemi sul piano emotivo.. grazie per avermi aperto gli occhi! 

Ma l'articolo è veramente interessante, come pure i commenti e forse mi darò alla lettura di qualcuno dei libri su citati. Grazie Izraphael.
Volevo anche chiedere all'autore dell'articolo se si interessa di quel ramo della cultura ebraica che va sotto il nome di Kabbalah, vista la scelta dell'immagine iniziale.

L'albero delle Sephiroth l'ho scelto io :)


Volevo anche chiedere all'autore dell'articolo se si interessa di quel ramo della cultura ebraica che va sotto il nome di Kabbalah, vista la scelta dell'immagine iniziale.

L'immagine l'ha scelta Agzaroth :)
È un argomento di cui so poco: ho una (blanda) infarinatura derivante da letture fatte più che altro per piacere, ma sono assolutamente lontano dal poter affermare di saperne qualcosa, se si escludono i concetti più basilari e qualche curiosità.

Già che ci sono, volevo ampliare un secondo la mia frase "sono cose che in realtà sono assolutamente normali".
Quello che intendevo dire è che in realtà che l'emotività è una parte attiva dell'attività ludica e può capitare che emozioni e sensazioni ci colpiscano, anche se sappiamo che quello che facciamo è finzione, un po' come quando ci commuoviamo guardando un film. Se io, giocando, provo un enorme trasporto, può succedere che questo infranga il cerchio magico e me lo "porti dietro" anche a partita\gioco finito. Questo può avvenire in modo assolutamente innocuo, fra noi e noi (se per esempio un videogioco ci commuove o ci sciocca e ci lascia scossi anche dopo che abbiamo finito la partita), oppure può far sì che ci rimangano addosso sensazioni provate in-game anche fuori dal gioco (la più tipica è la rabbia, come sa ogni giocatore di giochi online) che possono magari venir sfogate su terzi in varia misura: è sicuramente spiacevole, ma l'uomo non è una macchina e potrebbero esserci mille motivi per cui, in quel momento, la persona non è in grado di tenere a freno una qualche emozione.

In realtà sostanzialmente d'accordo con te: anche secondo la mia opinione si tratta di una "cattiva gestione" delle emozioni. Nel senso che non vedo grande differenza fra un giocatore online che, andato in tilt, spegne tutto e rimane nervoso per qualche tempo, e un giocatore da tavolo che prende sul personale un evento in-game (assolutamente lecito) e continua a farsi girare le balle anche a partita finita. Ma, sapendo quanto sia complessa l'emotività di ognuno e quanti fattori influiscano su di essa, credo sia difficile pensarla come un interruttore "acceso\spento" su cui abbiamo il dominio completo: le emozioni non sono mai controllabili al 100%, magari ho le difese abbassate perché sono stressato, o magari qualcun altro ha portato la sfera personale nel cerchio magico... di solito succede scherzosamente e senza l'intenzione di rovinare niente a nessuno, ma può bastare uno sfottò "personale" in un momento di stanchezza per far scricchiolare il "mondo immaginario" e far piazzare quella tessera proprio dove fa più male all'altro giocatore (la buona creanza mi impone di specificare che parlo del tavolo e non di parti del corpo).

Diciamo che sono d'accordo con te che si tratta di "anomalie" emotive che sarebbe meglio gestire, ma credo anche che i casi in cui emozioni e ragione si mischiano siano tantissimi e di natura molto varia, in modo spesso difficile da prevedere (tanto che, come designer, metto sempre in conto anche la possibilità di giocate "emotive" e non completamente razionali, soprattutto se c'è interazione diretta) e che sia tutto sommato frequente, soprattutto nel caso dei giochi da tavolo, che la socialità al tavolo, fra chiacchiere e frecciate, sfumi un po' i confini del cerchio magico; un conto è giocare a The Walking Dead della Telltale, da solo e magari isolato dalle cuffie, e un conto è giocare a Dead of Winter in sei, è chiaro che nel primo caso sono a tu per tu con il gioco e con l'esperienza proposta, nel secondo invece interverranno interazioni sociali, battute, tutte cose che mi portano "fuori" dal rifugio anti-zombi occupato dai miei sopravvissuti. Più il confine si fa sfumato, più è facile che le emozioni e le esperienze che si fanno in partita si "mischino" con quelle reali. Anzi, alcuni giochi ci marciano proprio su: molti giochi di ruolo, ma anche alcuni party game, "infrangono" volutamente il cerchio magico per coinvolgere maggiormente i giocatori.

Insomma, pur ritenendomi una persona estremamente razionale credo che le emozioni siano variabili così complesse da non poter essere facilmente incasellate; forse avrei dovuto dire "frequenti" anziché "normali", ma il senso della frase era che, soprattutto nel gioco da tavolo (che ha una separazione meno netta di altri media fra "in-game" e "real life"), trovo che sia abbastanza comune che le persone abbiano reazioni emotive "personali" a seguito di eventi che avvengono in partita e non ci trovo niente di strano, per quanto ovviamente casi estremi (rabbia, vendette, nervosismo prolungato etc) possano essere indice di scarso controllo o banalmente di un sovraccarico di stress... ma qui usciamo completamente dal mio campo e le mie competenze si fanno decisamente insufficienti, per cui su questo argomento temo di dover lasciare, da parte mia, più punti interrogativi che certezze :)

piazzare quella tessera proprio dove fa più male all'altro giocatore (la buona creanza mi impone di specificare che parlo del tavolo e non di parti del corpo).
Ah be', meno male che lo hai specificato, se no io non lo avrei mica capito... :D

Bell'articolo, molto interessante. Complimenti :)

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